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The Brutalist
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“The Brutalist”, il film di Brady Corbet candidato a numerosi premi Oscar

The Brutalist ha vinto il “Leone d’argento – Premio speciale per la regia” alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia 2024, tre Golden Globe (“Miglior film drammatico”, “Miglior regista” e “Miglior attore in un film drammatico” per Adrien Brody) e concorrerà agli Oscar in numerose categorie (come “Miglior film”, “Miglior regista”, “Migliore sceneggiatura originale” e molte altre). L’opera è radicale, nella forma e nella vicenda: la costruzione è rigorosa, estrema nelle immagini, nelle sequenze, negli eventi; la lunga durata (più di tre ore e trenta minuti) è ben ritmata e resa avvincente dall’ottima realizzazione (regia, fotografia, sceneggiatura, montaggio) e dalle efficaci interpretazioni (particolarmente Brody, Felicity Jones e Guy Pearce).

The Brutalist è il terzo lungometraggio diretto dal giovane regista Brady Corbet, scritto da Corbet e dalla compagna Mona Fastvold, ed è una vicenda densa di tematiche: il razzismo, il nazismo, l’antisemitismo, le difficoltà del “sogno americano”, il potere, lo sfruttamento, la speranza e la forza di andare avanti nonostante gli insormontabili ostacoli. Tutte queste realtà, tanto positive quanto negative, vengono vissute dal protagonista László Tóth (Adrien Brody), un talentuoso architetto ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento e fuggito negli USA per rifarsi una vita. Negli States, conosce un uomo molto ricco, Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) con il quale instaura una collaborazione per un faraonico progetto architettonico: realizzare un edificio imponente e polivalente in memoria della madre di Van Buren. Il progetto risucchia László, diventa la sua ossessione e l’uomo verrà sempre più vessato da Van Buren, il quale mostrerà il peggio di sé; nemmeno l’arrivo della moglie Erzsébet (Felicity Jones) negli Stati Uniti riuscirà a placare il turbamento dell’architetto.

László è devastato, porta dentro di sé il peso di essere sopravvissuto all’Olocausto, il peso d’essere un ebreo e straniero in terra d’altri, ed anche nel Paese della libertà, vive le difficoltà che pensava di aver lasciato in Europa (non a caso, quando giunge a New York, la Statua della Libertà viene inquadrata a testa in giù: un chiaro messaggio sulle future difficoltà dell’architetto formato alla scuola del Bauhaus). Il lager lo porta dentro di sé e lo riversa nella sua architettura brutalista, fatta di cemento armato, ferro, acciaio, pareti spoglie e ruvide: queste sono le fondamenta su cui si basa il progetto pensato per Van Buren, ovvero un edificio che ricordi i campi di concentramento dove László e la moglie sono stati imprigionati. Ma non deve soltanto ricordare il lager, deve essere una struttura capace di coniugare dolore e sollievo, tenebre e luce, sconfitta e speranza: un edificio che va oltre la costruzione in sé, capace di contenere e sintetizzare le esperienze del suo ideatore, tale da racchiudere, in maniera ipertrofica, tutti i sogni e gli incubi di László; il palazzo deve racchiudere, nelle fondamenta, l’inferno del lager, e nell’alto dei soffitti deve mostrare delle aperture tali da far entrare la luce nell’edificio, simbolo della speranza per l’umanità.

La costruzione del palazzo è complessa, titanica e ricca di rallentamenti, sabotaggi, blocchi: un’impresa di Sisifo, dove il padrone Van Buren mostra fino a che punto sa essere possessivo e senza scrupoli nello spolpare László. La vita dell’architetto ungherese diventa un inferno dantesco, riscontrabile particolarmente nelle scene girate nelle cave di Carrara e nei sotterranei dell’edificio commissionato da Van Buren. La regia, la fotografia ed il montaggio seguono la vita dell’architetto (una figura fittizia, ispirata a diversi architetti come Marcel Breuer) mostrando perfettamente ogni dettaglio della sua esperienza, ogni sfumatura del suo carattere e degli ambienti da lui vissuti; inoltre, l’aver girato il film nel formato panoramico VistaVision (pellicola 35 millimetri), ha valorizzato efficacemente le figure architettoniche presenti nell’opera e restituito una consistente quantità di dettagli dei volti e degli interni.

The Brutalist è un lungometraggio drammatico che, nonostante l’estrema lunghezza, sa come andare al punto della sua storia. Non si perde, è essenziale ma non superficiale, come l’architetto protagonista: sa raccontare il suo travaglio in maniera efficiente e, al tempo stesso, racconta il dramma di tutti gli esuli, ebrei e non, spesso incapaci di essere accettati dalle comunità che li ospitano. Un film che raccoglie in sé tante sottotrame al di sotto della trama principale, come il palazzo progettato da László per Van Buren: una figura dal profilo apparentemente semplice, ma, in realtà, profonda, ricca di ambienti, di sfumature e di inaspettate stanze. E come afferma László, ogni seria opera architettonica deve superare la prova del tempo, i capricci ed i mutamenti dell’uomo: anche The Brutalist, come una degna costruzione, può superare questa prova.

Silvio Gobbi