Nel 1968, lo scrittore e drammaturgo Aldo Braibanti (1922 – 2014) venne condannato a nove anni di galera per plagio, in quanto riconosciuto colpevole di aver sottomesso e manipolato, fisicamente e psicologicamente, un suo allievo molto più giovane, ma maggiorenne. Gianni Amelio, con Il signore delle formiche (presentato in concorso alla 79ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) narra liberamente l’amara vicenda di Braibanti.
Il processo a Braibanti fu l’unico caso dove venne applicato il reato di plagio previsto dal codice Rocco: fu la famiglia del giovane amante di Braibanti a denunciare la loro relazione e a dare il via ad un iter giudiziario controverso e poco trasparente. Il ragazzo venne messo in manicomio e sottoposto all’elettroshock, Braibanti finì in prigione: fu condannato a nove anni in primo grado, quattro in Appello (confermati in Cassazione), ma scontò due anni di galera, gli altri due gli vennero condonati per il suo passato da partigiano, per il servizio reso durante la Resistenza.
Gianni Amelio racconta una storia di pregiudizi, di avvilente solitudine e di abbandono. La vicenda di Braibanti (ben interpretato da Luigi Lo Cascio) mostra un’Italia incapace di accettare le diversità, alla ricerca della “normalizzazione” e della condanna di tutto ciò che era visto come “immorale”: durante la focosa fine degli anni Sessanta, questa importante vicenda giudiziaria mostra i radicati limiti, l’habitus moralistico, di quegli anni lanciati nel futuro ma ancora frenati dal passato. Però l’opera ha dei punti di cedimento. Il signore delle formiche è caratterizzato da un primo tempo eccessivamente prolisso, didascalico, dai tratti televisivi e poco cinematografici: una sorta di lunga introduzione che azzoppa la forza degli onesti intenti dell’autore. Nella seconda parte, totalmente incentrata sul processo a Braibanti, c’è un ritmo migliore: la maggiore presenza di particolari messe a fuoco, delle voci fuori campo, di certi piani sequenza e di alcuni primi piani, rendono onore alle note capacità registiche di Amelio. Ma, nonostante ciò, il risultato non brilla come dovrebbe. L’opera rimane bloccata, ingessata, parla dei preconcetti dell’epoca ma non li approfondisce come dovrebbe: i “cattivi” sono cattivi e basta, sono piatti e senza spessore, non c’è il tentativo di sviscerare alcun perché di quel mondo incapace di accettare un’altra forma d’amore. Inoltre, l’autore non menziona i molti personaggi pubblici che si spesero in difesa dell’accusato, tra i quali ricordiamo Umberto Eco, Elsa Morante e Alberto Moravia. Viene citata solo Emma Bonino (d’oggi), in quanto simbolo dei Radicali, i primi a difendere Braibanti, con un’unica e statica inquadratura di lei. Per non parlare poi della visione tagliata con l’accetta per quanto riguarda il Pci e il lavoro del suo giornale, “L’Unità”. Certo che nell’area comunista l’omosessualità non era tendenzialmente ben vista, ma non c’era soltanto Ennio Scribani (personaggio d’invenzione interpretato da Elio Germano), un giornalista solitario, misconosciuto, di cronaca nera in quella redazione a difendere Braibanti: si espose personalmente anche Maurizio Ferrara (all’epoca direttore del giornale) con un articolo in prima pagina che definiva «processo aberrante» ciò che l’accusato stava subendo.
Sin dal principio del film, il regista dichiara di ispirarsi liberamente a fatti realmente accaduti, quindi una certa manipolazione storica è naturale, ma non per questo efficace. Amelio si allontana dalla cronaca per puntare ad un’opera più evocativa che storica, la sua visione poetica vuole denunciare l’Italia reazionaria nei confronti dell’omosessualità, ma il risultato complessivo è appiattito su note troppo semplici e non complesse. Queste assenze e semplificazioni, tale schematica dicotomia tra “giusti ed ingiusti” non restituisce bene l’importanza storica della vicenda di questo intellettuale appassionato di formiche, Braibanti, un uomo che sognava un mondo simile a quello dei suoi animali prediletti: animali solidali, pronti ad aiutarsi l’uno con l’altro. Un mondo che non è mai esistito, e che, ancora oggi, fatica a nascere.
Silvio Gobbi