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La voce della Luna
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“La voce della Luna”: i trent’anni dell’ultimo film di Fellini

«Ma ci pensi? Vivere finalmente liberi, liberi nel cuore. Ed è così semplice, qualcosa che ci appartiene da sempre. Mi viene da piangere nel vedere che invece tutto è ancora così buio, così lontano. Vedo solo offese, ingiustizie. […] Così devono continuare le cose, per sempre? Senza riuscire mai a credere in una voce amica?». Così si sfoga il giovane Ivo Salvini, dopo essere stato recuperato da un pozzo della campagna emiliana. Anima errante, il giovane è figlio di un tempo perduto: vive nel suo mondo, e gli altri lo prendono per pazzo (è stato anche in manicomio). Non ci sono per lui voci amiche, ma solo offese e incomprensione. Soltanto i pozzi hanno una voce amica: sente, dal profondo di quelle cavità, una voce che lo chiama, come una sirena irresistibile. E vuole entraci a tutti i costi. Ivo non è il solo personaggio emarginato del paese: gli fanno compagnia l’ex prefetto Gonnella, Nestore e la piccola punk. Vari sono i protagonisti eccentrici di quella cittadina provinciale. Una provincia alla soglia degli anni Novanta, non più identificabile, uguale a tante altre: l’uniformazione di quelle realtà è ormai un dato di fatto. Fellini ne La voce della Luna (1990) rappresenta, con sogno e rammarico, un mondo che sta mutando e non può più essere compreso. Un regista dallo sguardo apparentemente stanco, malinconico, ma in realtà saldo alla sua poetica onirica e capace di rappresentare un mondo tristemente diverso da quello della sua gioventù: pieno, oggi, di usi e costumi da lui difficilmente accettabili. Prendendo ispirazione da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, Fellini, in questo suo ultimo film, descrive i suoi particolari personaggi raffigurandoli come se fossero il tramite con il mondo del passato, incomprensibile ai più, messo all’angolo dalla maggioranza perché destinato a morire: sono folli proprio perché non possono più essere compresi da chi li circonda. Non c’è più il ricordo piacevole di Amarcord (1973) o la pigrizia amara de I vitelloni (1953): nel mondo globalizzato, nella provincia altrettanto omologata, dove tutte le lingue ed i dialetti si mescolano, le personalità diverse rispetto agli standard sono delle candele in fase di spegnimento. Con La voce della Luna non termina solo il mondo di Fellini, ma anche quello di Ermanno Olmi, di Pier Paolo Pasolini. È il segno di un trapasso: l’appiattimento denunciato (da tempo) da Pasolini è compiuto, le periferie non hanno resistito e le realtà locali sono solo un ricordo. Ivo, personaggio buono e confuso in questo mondo così roboante, rumoroso, gonfio di superficialità ed apparenze, dove imperano i walkman ed alle pareti delle osterie troviamo dipinti Gullit ed il Milan, è come un alieno sulla Terra. Un uomo tra Leopardi e Pinocchio, parla alla Luna con i versi del pastore errante: satellite di riferimento per l’uomo, simbolo, sin dall’antichità, di magia, costantemente presente in arte e letteratura, ora, invece, non ha più nessun potere. Ricordate Astolfo che arriva sino alla Luna per recuperare il senno di Orlando? Adesso è la Luna ad essere trascinata verso di noi, catturata dai paesani: ma è muta, inutile, un corpo estraneo e impotente. Il popolo della piazza rivolge alla sfera domande che non hanno mai risposta: il nostro senno non è più nemmeno in lei. Viene contaminata, corrotta, durante la sua prigionia sul nostro pianeta, e quando torna in cielo arriva ad urlare: «Pubblicitààà!». Ora anche la Luna fa parte del mondo della TV, il contatto con gli umani è stato traumatico e radicale. Ed Ivo continua a cercare la salvezza nella campagna, nelle viscere della terra, nelle profondità dei pozzi da dove provengono le tante voci che lo chiamano. Gli schiamazzi della discoteca improvvisata nel capanno in mezzo alla campagna sono un mondo a parte, distinto dai grilli, dalle cicale e dai suoni che il giovane rincorre. Ivo deve ascoltare le voci, non capirle: quelle voci per lui sono un richiamo della terra, del passato. E per ascoltarle al meglio deve insinuarsi nei pozzi: magari, andando sempre più giù, in profondità, è l’unico modo per capire come ascoltare gli altri ed il mondo?

Silvio Gobbi

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