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Killers of the Flower Moon
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“Killers of the Flower Moon”, il film di Martin Scorsese

Il cinema di Martin Scorsese si è sempre focalizzato sul crimine e la violenza, la colpa e la redenzione, la fede ed i dubbi: una filmografia di lotta, fisica e mentale, raccontata attraverso una regia inconfondibile, dal taglio serrato, dalle inquadrature e carrellate inimitabili. Certi suoi film, inoltre, hanno raccontato spaccati di storia e di società poco noti ed ora, con Killers of the Flower Moon, Scorsese narra al pubblico una storia sconosciuta ai più.

Protagonisti sono gli Osage. Questi indiani vennero spostati più volte dal governo statunitense, fino a che non ricevettero delle terre in Oklahoma: il governo non sapeva delle ricchezze petrolifere di quel territorio, e così questi indiani – seppur sempre sotto il controllo governativo – divennero «la popolazione al mondo con la maggior ricchezza pro capite», più ricchi dei bianchi, i quali lavoravano per loro. In questa realtà – per la precisione negli anni Venti del Novecento e nella città di Fairfax – William King Hale (Robert De Niro), un proprietario terriero e di bestiame, cercò, in maniera subdola e con la complicità di molti bianchi della città, di far fuori gli indiani per ottenere le loro proprietà, per arrivare al petrolio: per conseguire ciò, imbastì una serie di matrimoni combinati ed omicidi misteriosi. Arrivò ad utilizzare e manipolare anche il nipote, Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio), reduce della Prima guerra mondiale, il quale si innamorò dell’indiana Mollie Brown (Lily Gladstone), purosangue e proprietaria: i crimini aumentarono e la questione esplose, tanto che arrivò il Bureau of Investigation (futuro FBI) ad indagare su questa serie di morti oscure.

Killers of the Flower Moon è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2023 ed è tratto dal libro omonimo di David Grann. È una vicenda epica e schietta, fedele allo stile di Scorsese, che va dritta al suo nocciolo: un’opera che denuncia una delle tante ingiustizie commesse dai bianchi nei confronti dei nativi, caratterizzata da una regia ed una sceneggiatura perfette (un film di quasi tre ore e trenta che tiene il ritmo fino alla fine). Scorsese alterna le inquadrature panoramiche ai primi piani in maniera non concitata, optando per una regia più rilassata rispetto ai suoi standard, ma mai lenta: ottiene una tragica epopea che fonde abilmente dramma, cinismo, amore e spregiudicatezza. Il regista non si priva dei suoi caratteristici piani sequenza né dei fluidi movimenti di macchina che descrivono ambienti e personaggi, e ricostruisce con meticolosità la Fairfax degli anni Venti: una città di spregiudicati (non solo Hale) intenzionati ad avere la meglio sugli indiani e sulle loro ricchezze (medici che curano, volutamente, male gli indigeni, assicuratori furbi: sono tutti “killers” degli indiani) e dove gli indiani, gradualmente, perdono la loro cultura, i loro possedimenti, i loro beni. Scorsese rappresenta il mondo indigeno che sparisce, le usanze degli indiani annientate, i riti e le danze fagocitate dall’avidità del bianco: l’avidità, altra grande tematica del cinema di Scorsese, che non ha pietà di nulla e di nessuno, pronta a far fuori chiunque; inoltre, il regista ci ricorda che la bramosia dei predatori è un flagello che si abbatte non soltanto sugli Osage, ma su ogni minoranza, come i neri (non a caso, viene citato il massacro di afroamericani a Tulsa del 1921).

Tutti sono colpevoli dello sterminio: uno sterminio nascosto, poco narrato dalle cronache dell’epoca e segretato nei documenti governativi. Mollie raffigura il dolore di quel popolo, una sofferenza vissuta con una rispettabilità assoluta, che segna il passaggio finale da un mondo all’altro, un rituale dal quale non si torna indietro e che lascia tutto in mano ai bianchi. Mollie soffre in silenzio, capisce prima di tutti la cattiveria di Hale e la bontà di Ernest che sfocia nell’idiozia, ma, nonostante ciò, cerca di dare tutta la fiducia possibile a quello sprovveduto marito (ricordiamo che sono entrambi sinceramente innamorati l’uno dell’altra). Il dolore di Mollie (fisico, per il diabete, psicologico, per lo sfruttamento e lo sterminio della sua gente) è tanto potente quanto dignitoso, corporeo e spirituale (in ciò, ricorda i protagonisti di Silence): la sua autenticità e la sua sincerità, rappresentate senza alcuna retorica, sono l’unico vero tesoro che lei (insieme al suo popolo) possedeva, e che l’uomo bianco non è riuscito a portare via.

Silvio Gobbi

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