1861-2021: 160 anni di Unità d’Italia. Un argomento che ha diviso, e continua a dividere, l’opinione pubblica, gli storici, i politici: una unità complessa, un evento dettato da una serie di fattori differenti e concomitanti.
«In Italia l’unità non fu soltanto un prodotto dell’iniziativa militare e diplomatica di uno Stato o dell’azione di un uomo politico geniale […]. Essa fu preparata da un ampio moto di opinione pubblica che coinvolse gli strati sociali più attivi e dinamici, seppur minoritari: intellettuali, studenti e anche una borghesia produttiva desiderosa di creare quel mercato nazionale che era giustamente considerato una premessa indispensabile allo sviluppo economico»[1]. Il cinema ha dato voce a questa parte di popolazione, a questi «intellettuali, studenti e […] borghesia produttiva» intenzionati a dare corpo ad un’unica Italia. Molti registi hanno raccontato queste storie, questi frammenti di Risorgimento, tra verità e finzione: un tema centrale non solo per lo Stato, ma anche per la storia del cinema italiano.
Sin dai primi decenni del Novecento, sono state prodotte pellicole di tema risorgimentale. Nel 1934, Alessandro Blasetti girò 1860 – I Mille di Garibaldi, un film dalla retorica fortemente contenuta (operazione non scontata dati il tema ed il periodo), asciutto, dal taglio quasi proto-neorealista: il racconto dei contadini siciliani che attendono l’arrivo dei Mille per insorgere contro il regime borbonico. Un’opera aderente alla propaganda ruralista dell’epoca, ma al tempo stesso capace di discostarsi dall’eccessivo trionfalismo: un lungometraggio che cerca, con qualche forzatura, uno stile narrativo degno di nota.
Il Risorgimento ha continuato ad interessare l’Italia del secondo Dopoguerra e, tra gli anni Cinquanta e Novanta, molti autori si sono cimentati a rappresentare questa parte di storia d’Italia. Pensiamo a Senso (1954) e Il Gattopardo (1963), entrambi di Luchino Visconti. La prima pellicola è ambientata a Venezia, durante la Terza guerra d’indipendenza (tratta dalla novella di Camillo Boito); il secondo film è in Sicilia, durante la spedizione di Garibaldi (dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Due opere dove i grandi eventi trascendono le scelte dei protagonisti, infiltrando le vite degli stessi e costringendoli a delle radicali trasformazioni: i drammi individuali rispecchiano i mutamenti di quell’epoca. Questi soggetti faticano ad adattarsi al mondo che cambia, a sopravvivere nella nuova realtà, attraversando un dramma esistenziale dove il minuzioso affresco storico e ambientale è parallelo alla complessità dei suoi personaggi.
Alla forte componente drammatica di questi due film affianchiamo la famosa trilogia di Luigi Magni: Nell’anno del Signore (1969), In nome del Papa Re (1977) e In nome del popolo sovrano (1990). Magni raffigura una Roma ottocentesca in fermento, tra carbonari in incognito e ricerca di libertà del popolo dalla Chiesa. Dalle tonalità estremamente differenti rispetto a Visconti, meno epico e tragico, ma non per questo superficiale, Magni fa emergere un Risorgimento vivo, vitale, ideale e romantico, capace ancora oggi di intrattenere il pubblico, con un’espressività drammatica e scherzosa al contempo. Montanari, Targhini, Pasquino, Ciceruacchio, personaggi reali e di fantasia, tasselli ribelli nella Roma papalina vicina alla fine: una critica al potere temporale ecclesiastico narrata con leggerezza e serietà, viaggiando tra la storia e la finzione, tra realtà e sogno.
Anche nel nuovo millennio, il cinema italiano ha dedicato il suo spazio al Risorgimento: pensiamo a I Viceré di Roberto Faenza (2007), tratto dall’omonimo romanzo di Federico De Roberto (1894). La storia della famiglia Uzenda di Francalanza, una casata corrotta e tetra, capace di mantenere il proprio potere nei secoli, da Carlo V fino ad arrivare al Parlamento del neonato Regno d’Italia. Un’opera disincantata, cinica, che non lascia spazio al sogno: nessuna magniloquenza come Visconti, nessun sentimento nostalgico, nessuna idealizzazione, ma pura lotta e calcolo per rimanere costantemente al comando. Puro trasformismo: un Risorgimento lordato da figure pronte a salire sul carro dell’Unità pur di mantenere i propri privilegi. E l’amarezza per un’Italia unita incapace di assecondare gli ideali per cui era nata, perché macchiata dalle vecchie consorterie, la troviamo anche in Noi credevamo, di Mario Martone (2010). Dal romanzo di Anna Banti, Martone gira questo film di illusioni, disillusioni e storia: l’Italia desiderata dai giovani protagonisti, per la quale hanno fatto di tutto, anche finire in galera e rischiare la vita, dopo una vita di lotta, non prende corpo. Una nazione che nasce vecchia, logora, perché non sono state estirpate le radici dei suoi antichi mali, anzi, hanno già attecchito nelle nuove istituzioni. Una critica amara sul passato, che guarda anche al presente.
Dell’unità nazionale come occasione persa, ne hanno parlato in molti (anche Piero Gobetti e Antonio Gramsci, da punti di vista differenti, vedevano nel Risorgimento, nell’Italia unita, una “occasione mancata”): è un tema emerso dall’inizio, con la nascita stessa. Ma è soprattutto in questi ultimi anni che tale rappresentazione sempre più disincantata del Risorgimento, che non teme di raffigurare anche i problemi, le contraddizioni, di quel periodo, sta prendendo piede. L’idealismo nei confronti dell’epoca è calato, nella storiografia come nel cinema a riguardo, e questi registi ci ricordano che la vicenda non è conclusa: il Risorgimento, come ogni altro tema, richiede e richiederà uno studio continuo, perché sono ancora molti gli aspetti complessi e gli eventi che lo hanno caratterizzato da far emergere.
Silvio Gobbi
Note
[1] Giovanni Sabbatucci-Vittorio Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, p. 63.