di Alberto Pellegrino
A novembre del precedente anno ci siamo occupati di due femminicidi avvenuti nel Quattrocento e nel Cinquecento, ora ritorniamo sull’argomento per parlare di un avvenimento accaduto nella città di Pesaro nei primi anni dell’Ottocento, un fatto che ebbe una notevole risonanza in tutta la regione e che vide indirettamente coinvolto un grande marchigiano da tutti conosciuto e amato.
Nel 1819 una giovane donna di 23 anni, Virginia Del Mazzo, muore a Pesaro in circostanze sospette per il procurato aborto di un feto di cinque mesi, un intervento fatto nel segreto della sua casa e con strumenti inadeguati dal chirurgo Angelo Lorenzini, un professionista di 50 anni, molto stimato, sposato e padre di due figlie. La giovane donna molto bella è la moglie di un doganiere il quale, quando parte per svolgere il suo lavoro nel ferrarese, la affida al medico affinché possa assisterla in caso di bisogno. Il prefessionista comincia a frequentare assiduamente la casa e tra i due nasce una relazione clandestina che porta Virginia a rimanere incinta.
Il processo in prima istanza a Pesaro
La domestica Marianna Bettarelli, insospettita dallo svolgimento dei fatti avvenuti tra il 20 e il 21 febbraio 1819, sporge denuncia alle autorità, perché la sua padrona fino a quel momento era stata in condizioni normali e non aveva “perduto le acque”. La Bettarelli dichiara che il dottor Lorenzini si era chiuso nella camera da letto e le aveva impedito di entrare nonostante sentisse la signora urlare di dolore e dire che stava morendo. Il Procuratore, a seguito della denuncia, ipotizza il reato di procurato aborto punito dalla legge papale del 1754 come delitto di rilevante gravità, per cui ordina l’arresto del chirurgo che viene rinchiuso nella fortezza di Pesaro.
Nel dicembre 1819, dopo aver proceduto alla riesumazione del cadavere, si apre il processo dinanzi al Tribunale criminale di Pesaro, presieduto dal delegato apostolico Monsignor Ludovico Gazzoli. Nel corso del dibattimento si appura, sulla base della testimonianza di Marianna Bettarelli, che il dottor Lorenzini è arrivato in casa senza essere stato chiamato e ha operato chiuso in camera; ha poi dichiarato a un suo collega che la morte è stata causata da una precedente febbre infiammatoria, per cui si è dovuto procedere alla immediata sepoltura del cadavere per evitare un eventuale contagio e uno scandalo che avrebbe nociuto alla reputazione della vittima.
Determinante per stabilire la colpevolezza dell’imputato è la testimonianza dell’anatomopatologo Giorgio Regnoli, il quale dichiara che l’aborto è stato eseguito in modo violento, con strumenti inadeguati e senza nessuna precauzione. Inoltre dall’analisi interna ed esterna del corpo si è rilevato che l’intervento è stato fatto contro la volontà della signora per la presenza di ferite ed ecchimosi estese a tutto il perineo, per la perforazione dell’utero e un forte versamento di sangue come conseguenza di un intervento eseguito con imperizia e violenza. In base a questi elementi, il Procuratore chiede una condanna esemplare e all’imputato viene inflitta la pena a sette anni di carcere, la sospensione dalla professione medica, il risarcimento ai parenti della vittima, il pagamento delle spese processuali e l’espulsione dallo Stato pontificio.
Il processo in seconda istanza a Macerata
Nel processo di secondo grado, che si svolge presso il Tribunale penale d’appello di Macerata, l’avvocato Lorenzo Romiti riesce a capovolgere la precedente sentenza, ottenendo l’assoluzione del Lorenzini. Risultano determinanti le testimonianze del marchese Fossa Piatti e del conte Camisatti Lancia, i quali sostengono il rigore morale e la professionalità sempre mostrata dal medico; la sua delicatezza che spesso lo ha indotto a non visitare le malate, dato che per rispettarne “l’intimità, restava fuori della porta della loro camera e si serviva delle loro madri per interrogarle e rendersi conto delle situazioni”.
L’avvocato difensore, con argomentazioni che ancora risuonano nelle aule dei nostri tribunali, denigra la testimone d’accusa perché appartiene al “sesso debole”, è una donna di bassa condizione sociale, analfabeta, avida di denaro, sobillata dai parenti della vittima. A sua volta Virginia Del Mazzo viene descritta come una persona dalla dubbia moralità che ha voluto liberarsi con “sconce pratiche del frutto del peccato”, infangando un professionista d’indiscutibile moralità e bravura che ha cercato in extremis di salvarle la vita. E’ una scena che si ripete spesso: l’assassino è trasformato in un eroe e la vittima viene colpevolizzata e diffamata come una spregevole peccatrice. Nel rispetto della morale del tempo, tutto rientra nella normalità: la buona società pesarese tira un sospiro di sollievo; il chirurgo riprende il suo ruolo sociale di medico stimato e preferito dalla nobiltà; il marito è dipinto come una specie di ruffiano; la giovane e bella Virginia è gettata in pasto alla pubblica opinione al pari di una prostituta.
Nessuno si schierò allora a favore della vittima
Chi ha il coraggio di ribellarsi di fronte a questa palese ingiustizia, allo scempio morale di una giovane donna? Solo un poeta quasi sconosciuto di 21 anni, Giacomo Leopardi, che nel chiuso del suo studio e del suo “oscuro borgo selvaggio” scrive la canzone Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato al corruttore per mano ed arte di un chirurgo (marzo-aprile 1819), dimostrando di avere la visione avveniristica di un genio.
Giacomo, spinto dalla sua ansia di libertà e di dignità, scrive di getto la poesia e la invia all’editore bolognese Pietro Brighenti (1775-1848), di cui si fida perché conosce il suo amico e protettore Pietro Giordani. Invece l’editore, prima di pubblicarla, in data 30 gennaio 1820 invia a Monaldo Leopardi la canzone Ad Angelo Mai e la canzone dedicata alla giovane donna pesarese, chiedendo l’autorizzazione a stamparle, poiché dice di conoscere il rispetto delle “sante regole del nostro amatissimo Stato” del conte. Monaldo dà il consenso per la prima canzone, mentre nega l’autorizzazione per l’altra, dicendo di provare vergogna solo a parlare di questo lavoro di suo figlio che considera un insulto alla morale e alla poesia, scusandolo dall’aver commesso l’errore di occuparsi di “una storia così abbietta” solo per la sua giovane età. Per questa censura paterna quei versi non sono stati pubblicati e invano li cercheremmo nei Canti.
La riscoperta della canzone leopardiana
La canzone vedrà la luce solo nel 1906, relegata tra le opere minori del poeta e, fino a qualche anno fa, era possibile leggerla nella raccolta completa delle Opere leopardiane (Mursia, 1966), inserita nella sezione Poesie varie (p. 146). Nonostante la presenza della canzone su Internet, il testo leopardiano e il delitto ad esso collegato rimangono nell’ombra, fino a quando nel 1999 due studiosi, Giovanni Mestica e Giovanni Di Ferdinando, dedicano all’argomento un saggio pubblicato sulla rivista pesarese Studia Oliveriana e successivamente l’illustre Biblioteca promuove alcuni convegni su questa vicenda. La scrittrice recanatese Donatella Donati pubblica in seguito il dramma in un atto Nello strazio di una giovane (Osanna Edizioni, 2012), dando forma teatrale a quella tragica storia sulla base della documentazione conservata nella Biblioteca comunale pesarese, del fascicolo processuale depositato nell’Archivio di Stato di Pesaro, del testo leopardiano, dato che tra i protagonisti del dramma c’è anche il giovane Giacomo.
A questi encomiabili tentativi di rompere un lungo silenzio, si è aggiunto ora lo spettacolo Memorie come polvere. Polifonia per Virginia Del Mazzo da Giacomo Leopardi a Bessie Smith, un testo scritto e interpretato da Paola Grassi e Romina Antonelli, andato in scena il 29 marzo 2024 nel “Performing Arts Center” di Pesaro. Questa pièce si basa sugli atti processuali e su altri documenti d’epoca, sulla canzone leopardiana e sulle vicende narrate nel libro Countin’ the blues. Donne indomite di Elisa De Munario (Arcana Edizioni, 2020), il quale contiene le advice songs, composizioni di donne afroamericane che hanno messo in musica il dolore e la voglia di riscatto di fronte a tanti episodi di violenza e sopraffazione.
La canzone di Leopardi non rientra certamente tra i suoi capolavori, ma rimane lo straordinario documento antropologico e sociologico di un giovane genio che ha il coraggio d’intervenire con lo strumento che meglio conosce, la poesia, a difesa dell’onore, della dignità e del diritto d’amare di una giovane donna vittima di una società patriarcale e maschilista. Giacomo mostra indignazione per il fatto accaduto ed empatia per una coetanea vittima di un aborto fatto con imperizia e crudeltà, tradita
in quel sentimento che per lui è sacro: l’amore. Di fronte allo scempio compiuto su Virginia, resta inorridito per tanta crudeltà e chiede come sia stato possibile “non giovarti in quella/Orrida pena e sotto a’ ferri atroci/Il pianto miserabile nè il molto/Addimandar pietate, /E non le triste grida, e non la bella/Sembianza, e ‘l gener frale, e non l’etate?”
Questi versi non hanno certo la purezza di altre sue liriche-capolavoro, ma sono ancora attuali per la portata dirompente della loro impetuosa denuncia, per il sentimento di compassione e partecipazione che esprimono. Giacomo sembra rivolgersi alle future generazioni, consapevole che i contemporanei non lo capiranno: “Forse l’empio tormento/Di tue povere membra a dir io basto/O sventurata? e può di queste labbra/, Uscir tanto lamento/Ch’al tuo dolor s’adegui allor che guasto/T’ebber la bella spoglia? / Tu lo sai, poverella, che non puote/Voce mortal cotanto; /Tu sai che per ch’il voglia/ A narrar tuo cruciato altri non vale. /Che s’al ver non cedesse il nostro canto, /Giuro che ‘l bosco e il sasso umano e pio/Di pietade immortale/Faria per la tua doglia il canto mio”. Sembra sicuro che questi suoi versi di denuncia contro la violenza maschilista supereranno ogni damnatio memoriae per riportare alla luce una verità manipolata che invece ancora parla alla coscienza di noi contemporanei.
Tre strofe della canzone leopardiana
Misera, invan le braccia
Spasimate stendesti, ed ambe invano
Sanguinasti le palme a stringer volte,
Come il dolor le caccia,
Gli smaniosi squarci e l’empia mano.
Or io te non appello,
Carnefice nefando, uso ne’ putri
Corpi affondar l’acciaro:
Odimi, a te favello
O scellerato amante. Ecco non serba
La terra il tuo misfatto, e invan l’amaro
Frutto celasti a la diurna luce,
Cui già di sotto a l’erba
Ultrice mano al pianto e al sol riduce.
Che misero diletto
Fu ‘l tuo, tradita amante! oh come poco
Godesti di tuo fallo! E t’avea pure
Già punita il sospetto
E la paura, e di vergogna il foco,
E le angosce, e lo sprone
Del pentimento: or non bastava al fato
Sì greve pena; or questo
Ultimo guiderdone
Serbava al fallo tuo: morir per opra
Di quel che tanto amavi, e così presto
Per l’età verde, e in barbaro cruciato,
E non lasciar qua sopra
Altro che ‘l sovvenir del tuo peccato.
Or dunque ti consola
O sfortunata: ei non ti manca il pianto,
Nè mancherà mentre pietade è viva.
Mira che ‘l tempo vola,
E poca vita hai persa ancor che tanto
Giovanetta sei morta.
Ma molto più che misera lasciasti
E nequitosa vita
Pensando ti conforta;
Però che omai convien che più si doglia
A chi più spazio resta a la partita.
E tu per prova il sai, tu che del mesto
Lume del giorno ha spoglia
Tuo stesso amante, il sai che mondo è questo.