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La grotta dove fu uccisa la Beata Marchesina Luzi
La grotta dove fu uccisa la Beata Marchesina Luzi

Tra Quattrocento e Cinquecento due femminicidi hanno sconvolto la nostra città

di Alberto Pellegrino

Tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento due terribili omicidi sconvolsero la città di San Severino, non solo perché due giovani nobildonne furono assassinate da loro stretti parenti, ma perché questo dramma riguardò due persone molto stimate per le loro virtù, la rettitudine dei costumi, la profonda fede cristiana e la carità esercitata verso i più poveri, tanto che entrambe furono oggetto di culto da parte della cittadinanza e furono poi proclamate “Beate” dalla Chiesa cattolica.

Questa è la loro storia.

Camilla Gentili di Rovellone

La Beata Camilla Gentili di Rovellone

Era nata nella seconda metà del Quattrocento da due genitori di nobile famiglia, Luca Gentili di Rovellone e Brandina Grassi, sua seconda moglie. Attendibili fonti storiche affermano che Camilla era una giovane virtuosa, che si distingueva per la pietà filiale, l’amore verso Dio e i poveri, la fede cristiana che lei manifestava attraverso la preghiera e la pratica di sacrifici per mortificare le tentazioni della carne. Per ubbidienza verso i genitori aveva accettato di sposare il nobile Battista Santucci che era considerato un partito all’altezza delle loro aristocratiche famiglie. Inoltre questo matrimonio veniva probabilmente stipulato per superare gli antichi dissapori e rancori che dividevano le famiglie Grassi e Santucci.

Purtroppo Battista rivelò ben presto la sua natura di uomo violento e crudele, approfittando del matrimonio per riversare sulla povera e innocente Camilla l’odio che provava per i membri della famiglia Grassi e, in particolare, nei confronti della suocera Brandina. La giovane moglie soffriva in silenzio e sopportava con pazienza violenze e angherie nella speranza che l’uomo potesse rinsavire e ravvedersi. Al contrario, Battista era ossessionato dal suo implacabile odio e non mostrava nessun riguardo nei confronti della moglie così mite, sottomessa e stimata da tutti per la sua bontà. Nel 1482 fu accusato dell’assassinio di Pierozzo Grassi, ma anche in quella occasione Camilla non cambiò il suo atteggiamento verso il marito e cercò di salvargli la vita con la preghiera e con l’intervento personale presso le autorità. La giovane ottenne la cassazione del processo e il ritorno del marito a San Severino, da dove era fuggito per evitare la condanna. Parenti e cittadini pensarono che, con questo atto di perdono, sarebbe finalmente tornata la pace tra le due famiglie, ma l’odio di Battista verso i Grassi crebbe così tanto da proibire alla moglie qualsiasi contatto con la madre Brandina, un atteggiamento che lasciava prevedere la possibilità del verificarsi di qualsiasi terribile evento.

Il 26 luglio 1486 Battista, con finta tenerezza e inusitata gentilezza, chiese alla moglie di accompagnarlo in un suo podere in località Uvaiolo, per trascorrere qualche ora di serenità. Camilla, convinta che l’ostilità verso la sua famiglia fosse ormai cancellata, seguì il marito felice del suo cambiamento. Purtroppo Battista era un uomo crudele e ostinato che continuava a covare l’odio contro i Grassi; anzi questo sentimento era rivolto anche contro Camilla, perché aveva parlato in segreto con sua madre Brandina. Appena giunti nel podere, Battista estrasse un affilato pugnale e sfogò la ira immergendolo nella gola della moglie in modo di lavare l’offesa ricevuta per non aver rispettato il divieto di parlare alla suocera. Camilla, nonostante l’orribile gesto compiuto dal marito, innalzava a Dio una preghiera di perdono e di amore ma Battista, che non aveva ancora sfogato tutta la sua rabbia, s’infuriò maggiormente, le vibrò un colpo mortale al seno e si diede alla fuga. Così Camilla esalò l’ultimo respiro, tenendo le mani congiunte e gli occhi rivolti al cielo come se invocasse il Signore per la salvezza del suo assassino, sperando che potesse pentirsi e convertirsi.

L’agghiacciante delitto fu subito scoperto e destò immensa pietà e indignazione in tutta la città, per cui una folla commossa seguì la salma di Camilla fino alla Chiesa di Santa Maria del Mercato (oggi San Domenico), dove la famiglia Gentili possedeva una tomba nella Cappella di Santa Croce, nella quale furono deposte le spoglie mortali della giovane, dopo le solenni onoranze funebri celebrate alla presenza delle autorità civili e religiose. Nel frattempo si diffuse in città il culto per Cammilla che venne subito chiamata con l’appellativo di “Santa”.

Non esistono invece notizie certe sul destino di Battista: non si sa niente sulla celebrazione del processo da parte delle autorità cittadine; se l’uxoricida abbia subito una giusta condanna; se sia riuscito a darsi alla fuga come aveva fatto per il suo precedente assassinio, lasciando per sempre la sua città.

Marchesina Luzi

La Beata Marchesina Luzi

Silvestro, capostipite della nobile famiglia Luzi, era un uomo ricco e stimato che nella seconda metà del Quattrocento si era trasferito da Visso a San Severino, dove gli era stato conferito il titolo di marchese. La sua famiglia era composta dal figlio maggiore Bernardino, uno stimato sacerdote parroco della Basilica di San Lorenzo in Doliolo, dalla figlia Marchesina e dall’altro figlio Mariotto. Secondo le fonti storiche, Marchesina era stata educata secondo i principi della religione cattolica, per cui era una giovinetta virtuosa, dedita alla preghiera, alle pratiche religiose e alle opere di carità. Intorno ai 12 anni aveva avvertito la chiamata del Signore e avrebbe avuto il desiderio di chiudersi in convento, ma per non abbandonare il padre, che amava teneramente, aveva ripiegato verso un’altra forma di vita religiosa e, intorno ai 15 anni, si era iscritta al Terzo Ordine di San Agostino, ne aveva vestito l’abito religioso ed era vissuta secondo la regola dell’ordine, “rinunciando al mondo pur vivendo nel mondo”.

L’ordine agostiniano era da diversi secoli presente a San Severino, dove aveva istituito un convento a Serralta e un convento di monache a Santa Maria in Submonte, stabilendo la propria sede nella chiesa di Santa Maria Maddalena, poi dedicata a Sant’Agostino. Marchesina frequentava questa chiesa con assiduità e manifestava sempre una grande fervore religioso con la preghiera e le opere di carità verso i poveri. Spesso si recava anche nella chiesa di San Domenico per pregare sulla tomba della Beata Camilla di Rovellone, che pochi anni prima era stata barbaramente assassinata dal marito.

La sua gioia spirituale era in parte offuscata dal dolore causato da Mariotto, un giovane scapestrato che conduceva una vita dissoluta con grave dispiacere del padre, del fratello e della sorella. Mariotto, che era noto in città per essere dedito al gioco e ad ogni forma di libertinaggio, si mostrava insensibile ai rimproveri e ai richiami al dovere del padre e degli amici, alle preghiere del fratello sacerdote, alle promesse di ricchi doni qualora si fosse ravveduto dei suoi peccati, alle minacce di castighi e alla possibilità di essere diseredato.

Il padre e il fratello pensarono allora di affidare a Marchesina il difficile compito di vincere le perversioni e l’ostinazione di Mariotto, di farlo sottostare al volere del padre e ai desideri del fratello, di farlo riflettere sulla salvezza dell’anima. Marchesina accettò questo compito con la forza di “un’anima innamorata di Dio e della virtù” e si rivolse a Mariotto con affetto per ricordargli che ogni cristiano doveva odiare il peccato, temere il giudizio di Dio e l’eternità delle pene infernali. La giovane riferiva inoltre al fratello il dolore provato dal padre, i dispiaceri di tutta la famiglia, il disprezzo che la gente manifestava verso di lui, il pericolo di cadere nelle mani della giustizia.

Marchesina, piena di fiducia nella misericordia di Dio, sperava con questi suoi ammaestramenti, di toccare l’animo indurito del giovane che, di fronte alle preghiere, alle sagge riflessioni, ai pianti della sorella, rispondeva con insulti volgari, dileggi, percosse e persino con proposte oscene che offendevano il pudore della sorella verso la quale sembrava nutrisse una incestuosa passione. Mariotto si mostrava sempre più insofferente agli ammonimenti e ai richiami del castigo divino da parte di Marchesina ed era così esasperato da fargli escogitare un diabolico piano, per cui nei primi giorni del gennaio 1510 manifestò al padre il desiderio di fare visita ai parenti di Visso e chiese di farsi accompagnare da Marchesina che, nella speranza di conquistare l’animo del fratello, accettò di fargli compagnia.

I due si avviarono a cavallo sulla strada per Camerino ma, giunti nei pressi del Monte Mambrica, Mariotto propose che, per guadagnare del tempo, era meglio percorre la via attraverso la gola delle grotte di Sant’Eustachio che conduceva ugualmente alla città dei Varano.

Veduta delle grotte di Sant’Eustachio, San Severino Marche, Marche, Italia, foto Istituto Italiano d’Arti Grafiche, Bergamo, 1905 circa.); © Fototeca Inasa/NPL – DeA Picture Library

Su questo sentiero dissestato e poco frequentato Mariotto, che precedeva a cavallo la sorella, a un tratto entrò in una delle grotte e cominciò a chiedere aiuto, fingendo di avere avuto un incidente. Marchesina, timorosa per la salute del fratello, scese da cavallo e s’inoltrò nella grotta da dove giungevano le grida del fratello ma, invece di trovarlo disteso a terra e bisognoso di soccorso, se lo trovò davanti con un atteggiamento minaccioso e violento. La giovane cercò allora di richiamarlo ai suoi doveri e alla ragione ma Mariotto, vistosi respinto, afferrò la sorella, le mise una corda al collo la strangolò, quindi si diede alla fuga nei boschi.

Lo storico Severino Servanzi Collio sostiene che l’odio di Mariotto verso la sorella non fosse determinato solo dai rimproveri per il suo libertinaggio e i suoi peccati, ma fosse anche alimentato da un’insana passione incestuosa, per cui aveva attratto Marchesina in quel luogo solitario per vincere con il terrore e le minacce di morte le sue resistenze e poter soddisfare le sue voglie.

Secondo lo storico, in questo caso il comportamento della Beata “tornarebbe a gloria della nostra Marchesina, la quale per non farsi strappare di mano il giglio verginale, preferì di subire, direi quasi il martirio” (Severino Servanzi Collio, Sulla vita e sul culto della beata Marchesina Luzi, Tipografia Mancini, Macerata, 1863).
Per qualche giorno Marchesina giacque morta in fondo alla grotta prima che qualcuno si preoccupasse della sorte dei due fratelli, poiché i familiari ritenevano che fossero giunti a Visso. Nel corso della prima notte un monaco agostiniano, forse il confessore di Marchesina, vide apparire in sogno “l’orribile fatto, il luogo dove fu commesso il delitto, gli atti minacciosi di Mariotto, le ripulse di Marchesina, il barbaro fratricidio, il corpo della vergine esanime rimasto genuflesso a mani giunte, e la fuga dello snaturato fratello” (S. Servanzi Collio, op. cit.). Al monaco il sogno sembrò una sua immaginazione e mantenne il silenzio, ma il sogno si ripeté la notte successiva e ancora per la terza notte. Allora il padre ritenne che fosse suo dovere riferire il sogno al priore, il quale decise di andare nel luogo indicato insieme al confratello. I due scoprirono così la crudele realtà: Marchesina stava in ginocchio in fondo alla grotta con le mani giunte, la fune intorno al collo, il viso rivolto al cielo e, malgrado fossero trascorsi tre giorni dalla morte, il suo corpo appariva ancora roseo e flessibile.

Il priore chiamò i monaci del Convento di Sant’Agostino, affinché si potesse prelevare il corpo per seppellirlo nella loro chiesa, essendo Marchesina una terziaria agostiniana. Il delitto venne anche a conoscenza della popolazione, dei familiari, delle autorità, per cui una folla si radunò presso la grotta e lungo la strada percorsa dalla salma fino alla Porta di San Lorenzo (oggi Porta Romana). Nella via che conduce alla Chiesa di Sant’Agostino, il traporto si trasformò in un vero trionfo, perché il popolo dei fedeli cercava di baciare la salma e di tagliare qualche brandello delle vesti per avere una reliquia. Per tre giorni il corpo di Marchesina rimase esposto in chiesa per essere visitato dalla cittadinanza; quindi fu inumato nella tomba comune dei terziari agostiniani, ma qualche giorno dopo la salma fu collocata sotto un altare laterale in una urna, sulla quale venne scolpito lo stemma gentilizio della famiglia Luzi.
Nel 1837 monsignor Bernardino Luzi commissionò al pittore settempedano Filippo Bigioli un quadro che si trova ancora sopra l’altare laterale della cattedrale di Sant’Agostino. In esso è raffigurata la Beata Vergine con in braccio il Bambino; più in basso sono ritratti, inginocchiati sopra una nuvola, Sant’Agostino e Santa Monica con il viso rivolto verso la Madonna. Nella parte inferiore del quadro è raffigurata sulla destra la Beata Marchesina con l’abito da terziaria agostiniana; sulla sinistra vi sono due angioletti appoggiati a un pilastro, sul quale è riprodotto lo stemma della famiglia Luzi indicato da un angelo, mentre l’altro tiene in mano un giglio bianco, simbolo di verginale purezza della Beata (B. Luzi, Compendio della vita e della morte della beata Marchesina Luzi settempedana, 1894).

Eremo e grotte di Sant’Eustachio, uno dei luoghi del cuore

Viene da chiedersi che fine abbia fatto l’assassino Mariotto Luzi. Nell’archivio storico comunale e nel Fondo dei Manoscritti “Giuseppe Ranaldi”, presso la Biblioteca comunale di San Severino, esiste un resoconto del “processo criminale” per il delitto commesso da Mariotto di Silvestro da Visso, celebrato dal Tribunale istituito “con la facoltà del mero e misto impero, e con l’autorità di condannare a morte” dal privilegio concesso nel 1362 a San Severino da papa Urbano V e confermato nel 1379 da papa Urbano VI.

I due giudici, che emisero la sentenza, erano il Podestà Dionisio Benincasa di Ancona e il Giudice collaterale dottore in legge Cola Benigni di Monterubbiano, alla presenza del Notaio e Ufficiale dei Malefici Ugolino Martinozzi di Fano.

Nel corso del processo, iniziato il 14 gennaio 1510, si prese atto che Mariotto era “un uomo di cattiva condotta, di cattiva fama e di cattiva vita” (hominem malae conditiones, vitae et famae), che aveva compiuto il suo delitto con l’inganno e la premeditazione, che il 1° gennaio 1510 aveva condotto la sorella nella Valle di Sant’Eustachio da diabolico spiritu inspiratus, che l’aveva afferrata con ira e violenza, che le aveva messo una corda al collo per soffocarla o strangolarla (animo irato, et malo modo, animo et intentione infrascriptum omicidium committentiu, et perpetrandi: per vim et violentiam caepit ipsam cordam mittendo in gulam…ipsam suffucavit sive stragulavit).

Il 26 gennaio 1510 fu emessa sentenza poi consegnata nell’abitazione di Mariotto e resa pubblica con i consueti bandi. Il colpevole, che risultava fuggito dalla città, fu condannato in contumacia al taglio della testa e alla confisca di tutti i beni con l’aggiunta che, se fosse caduto in potere della giustizia, sarebbe stato condotto per le pubbliche strade fino al patibolo, dove il ministro di giustizia gli avrebbe separato la testa dal corpo per causarne la morte (ad paenam amputationis capitali, et confiscationis omnium bonorum suorum…et si in fortiam nostra pervenerit ducator, et duci debeat per loca publica dictae terrae usque ad locum justitiae, et ibi per ministrum justitiae caput a spatulis amputetur et separetur ita, et taliter quod penitus moriatur, et anima a corpore separetur).

E’ invece certificato che i beni di Mariotto furono confiscati dal Comune come si apprende da una delibera del 12 aprile 1510 approvata dal Consiglio di Regolato e Credenza, a seguito di una supplica del sacerdote Bernardino Luzi, nella quale diceva di possedere con il fratello Mariotto una casa nel quartiere di San Lorenzo, pochi altri beni immobili e mobili indivisi che erano stati confiscati per l’omicidio della sorella Marchesina. Bernardino richiedeva di poter ricomprare dal Comune la parte dei beni di Mariotto. La supplica concludeva che così facendo “le V.M.S. daranno causa ipso supplicante se fermare, et habitare continuo nella vostra terra, dove ha volontà vivere, come bono figliolo et servitore delle S.V. et ipso oratore le riporterà la grazia singolare”. Il Console, il Priore e il Consiglio di Credenza approvarono la vendita dei beni confiscati “pro soricidio commisso” contro il pagamento di sessanta fiorini. Non si hanno invece notizie certe se Mariotto sia rimasto impunito per il suo delitto e se la sentenza di condanna a morte sia mai stata eseguita, per cui si può supporre che l’assassino abbia continuato a vivere in stato di contumacia lontano dalla propria patria di origine.

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