Il regista Fatih Akın mette spesso al centro dei suoi film gli emarginati alle prese con una difficile integrazione con il mondo circostante. Probabilmente questa tematica è legata alla vita del regista, nato in Germania da genitori turchi: sa cosa significa essere esclusi, vivere ai limiti del mondo. I suoi lungometraggi hanno ricevuto importanti riconoscimenti, come l’Orso d’oro al Festival di Berlino per La sposa turca (2004), il Leone d’argento al Festival di Venezia con Soul Kitchen (2009) ed il Golden Globe per Oltre la notte (2017). Questi film si caratterizzano per differenti stili narrativi, diversi registri e generi (dal dramma alla commedia), ma hanno sempre al centro donne e uomini in conflitto con una realtà che non li riconosce e non li accetta per ciò che sono. E con il suo ultimo lavoro, Rheingold, Akın continua nel filone degli emarginati, raccontando la storia dell’ex delinquente e rapper tedesco di origini curde Giwar Hajabi, detto “Xatar” (in curdo “pericoloso”), traendo la sceneggiatura dall’autobiografia “Alles oder Nix: Bei uns sagt man, die Welt gehört dir”.
Una vita segnata dal dolore e dalla sofferenza. Giwar nasce mentre i genitori, alla fine degli anni Settanta, cercano di salvarsi dalle stragi di curdi perpetrate dal regime di Khomeynī: finisce in prigione con la madre ed il padre in Iraq prima di espatriare per la Francia e poi in Germania, a Bonn. A questa infanzia travagliata segue un’adolescenza turbolenta nelle periferie tedesche popolate da immigrati: il ragazzo cresce tra pugni e droga, entra nel mondo dello spaccio ed arriva al furto di un grande carico di oro, il quale gli costa una lunga e severa prigionia. Nel carcere riscopre la passione per la musica (ereditata da entrambi i genitori musicisti) e rifugiandosi nel rap incide le prime canzoni, canzoni che raccontano la sua storia, la sua vita ed i suoi errori.
Fatih Akın racconta la vita di Xatar attraverso un film ritmato, violento e crudo, capace di alternare il dramma a qualche risata ben inserita: un mix di registri tale da evocare Martin Scorsese e Guy Ritchie, mescolando abilmente storia, questioni etniche e crime story. “Rheingold”, l’oro del Reno, l’opera di Wagner e l’oro rubato da Giwar: tutta la vita del rapper è la ricerca di un tesoro per abbattere l’inquietudine e la sofferenza radicate in lui. Giwar è nato in una grotta tetra in Iran, in mezzo ai bombardamenti e ai pipistrelli, il suo nome significa “nato dalla sofferenza”: la scena con cui il regista rappresenta questa nascita è dura e tagliente, tale da far preconizzare sin da subito la difficile esistenza del ragazzo; un ragazzo che porta sulle sue spalle il peso della prigione vissuta da bambino e poi ritornata una volta adulto, un trauma atavico che non giustifica i crimini commessi, ma che permette di capirne meglio l’origine. Akın realizza un’opera brusca e dai tratti barocchi, kitsch come sanno essere i rapper, alternando alle esagerazioni un registro più essenziale ed asciutto. La forza di Rheingold sta nell’essere un prodotto di intrattenimento capace di andare al di là dell’adrenalina naturale prodotta dalle storie criminali: è un’epopea, una sorta di Odissea il cui percorso riconduce il protagonista alla musica, l’unico vero oro della sua vita, capace di farlo uscire da quella gabbia, fisica e mentale, dove aveva passato l’infanzia e buona parte della giovinezza.
Silvio Gobbi