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Penélope Cruz, Pedro Almodóvar e Antonio Banderas
Penélope Cruz, Pedro Almodóvar e Antonio Banderas

Il regista Pedro Almodóvar e il Leone d’oro alla carriera

Dal 28 agosto al 7 settembre 2019 si svolgerà la 76° edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Tra i vari eventi in programmazione, ci sarà il conferimento del Leone d’oro alla carriera a Pedro Almodóvar, uno dei più famosi registi spagnoli viventi. Nato nel 1949 a Calzada de Calatrava, inizia la sua carriera cinematografica negli anni Settanta, nella Spagna della fine del regime franchista. Dopo una serie di film poco noti ai più, comincia a far sentire il proprio nome nel 1983 con la grottesca e provocatoria commedia L’indiscreto fascino del peccato, ma il successo internazionale arriva con il cult Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988). Già da questa pellicola, entriamo in contatto con una delle tematiche del suo cinema: la centralità e preponderanza della figura femminile rispetto all’universo maschile, più abietto e meno potente del mondo delle donne. Una potente visione del femminile, tale da rendere il regista «il rappresentante estremo di una cultura mediterranea che riconosce la centralità del femminile, guarda al mondo delle donne con l’attenzione con cui in culture antiche ci si interrogava sulle forze primordiali che garantiscono la propagazione della vita» [1]. E con i successivi lavori, come Légami! (1990), Tacchi a spillo (1991) e Carne trémula (1997), Almodóvar prosegue a rappresentare la sua Spagna fatta di realtà marginali, di passioni, di assurde risate amare, dove corpi e pulsioni, dolori e piaceri si fondono: opere «sempre intrise di spirito acre e dissacratorio, in cui i rapporti fra i personaggi e le descrizioni ambientali» forniscono «la materia per un discorso polemico sulla mentalità borghese, osservata e descritta in toni persino farseschi e mascherata nei suoi tabù sessuali» [2]. Ma il primo film dove egli riesce a convogliare tutta la sua poetica, bilanciando perfettamente regia, sceneggiatura, dramma, sprazzi di ironia, morte e vita è Tutto su mia madre, premio “Miglior regia” a Cannes nel 1999, “Miglior film straniero” agli Oscar ed ai Golden Globe. Manuela (Cecilia Roth), la protagonista, è una donna che da poco ha perso il figlio, Esteban. Decide di superare il dolore e riprendere in mano la sua vita: torna a Barcellona, dove il padre (ora transessuale) del defunto figlio vive, per dirgli di Esteban e chiudere, definitivamente, tutte le questioni in sospeso col passato. Manuela è una donna sola, in una Spagna dai forti colori della terra (dalle sfumature di rosso e giallo): sa essere decisa senza retorica hollywoodiana. Non fa l’impossibile, ma soltanto ciò che deve e può. Nessun titanismo né patetismo: va oltre gli stereotipi del genere, ed è unica. Tutto su mia madre, pur essendo l’apice di Almodóvar, non è il suo punto di arrivo: gli anni Duemila segnano ulteriormente la sua carriera. Opere come Parla con lei (2002), La mala educación (2004), Volver (2006), Gli abbracci spezzati (2009), La pelle che abito (2011), Gli amanti passeggeri (2013; uno dei suoi più deboli film) e Julieta (2016), ripropongono e rielaborano i temi portanti del regista: universo femminile, sesso (una fame di sesso degna di Marco Ferreri, ma senza la cupezza del regista italiano), tradimenti, marginalità sociali e sessuali (omosessualità) e critica della società. Trame che sanno essere intricate con ritmo, capaci di dissacrare la realtà in ogni modo: per Almodóvar, l’uomo è comandato da pulsioni che invadono il corpo, creando eventi imprevedibili. Ciò che succede non è dettato da particolari motivi psicologici: quello che avviene, accade per passioni irrefrenabili, portando in scena vicende piene di particolari. Le ambientazioni rispecchiano la cura dei dettagli presente nelle sceneggiature: i colori pervadono l’atmosfera ed entrano in contatto con i personaggi, diventando parte dei sentimenti e delle azioni. Le scelte cromatiche completano ciò che vediamo: come tramite le dettagliate vesti rappresentate dall’ispanico Francisco de Zurbarán (1598-1664) il pittore dava vita ai suoi dipinti, lo stesso Almodóvar fa con le sfumature delle sue ambientazioni (il colore è oggetto, soggetto e azione). Nel suo ultimo film, Dolor y gloria, il regista parla di sé ispirandosi alla sua vita. Racconta più la sua personalità che la sua biografia, descrivendosi non tramite fatti realmente accaduti, ma attraverso una rielaborazione e reinvenzione di essi (con echi felliniani, in particolare nelle sequenze dell’infanzia): un nuovo approccio, una nuova visione raggiunta adesso, a settant’anni. Un Leone d’oro ad un regista che ha saputo parlare di temi scottanti senza banalità, capace di narrare vicende drammatiche senza perdere il senso dell’ironia. Con personaggi come Manuela, Marco Zuluaga (Parla con lei), Raimunda (Volver),
Harry Caine/Mateo Blanco (Gli abbracci spezzati), egli ha saputo innovarsi di volta in volta, riuscendo a coltivare «provocazione e anticonformismo all’ombra del simbolismo buñueliano» [3], trovando così il suo inconfondibile spazio nel mondo del cinema.

Silvio Gobbi

Note
[1] Marco Antonio Bazzocchi, Rosso Almodóvar, «Arabeschi. Rivista internazionale di studi su letteratura e visualità», 8, 2016, pp. 173-179: 178.
[2] Gianni Rondolino, Storia del cinema, vol. 2, Utet, Torino 2006, p. 333.
[3] René Prédal, Cinema: cent’anni di storia, Baldini & Castoldi, Milano 2014, p. 289.

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