Dopo aver esordito con Hereditary (2018) ed aver proseguito con Midsommar (2019), il regista e sceneggiatore Ari Aster realizza il suo terzo film, Beau ha paura, un thriller carico, allucinante, denso di contenuti e simboli, dove le disfunzioni familiari e le fobie del protagonista (interpretato da Joaquin Phoenix) sono il fulcro della vicenda.
I rapporti familiari alterati sono al centro della produzione del giovane regista (classe 1986) sin dai suoi inizi, e con questo ultimo lungometraggio Aster spinge al massimo la sua visione drammatica e disturbante della famiglia. In una recente intervista reperibile su “Rolling Stone”, l’autore ha spiegato l’importanza di questa tematica: «[…] le famiglie sono un’ottima fonte di dramma, no? Sono le persone a cui siamo più legati e, se parliamo della famiglia in cui si è nati, non si ha scelta, è così, non ci si può staccare. E credo che questa imposizione crei, inconsciamente, una situazione molto interessante»[1]. Infatti Beau è la quintessenza di questa concezione: non ha mai conosciuto suo padre ed è imprigionato in un claustrofobico rapporto madre-figlio, è un uomo buono e debole che non ha mai vissuto una vita propria e libera. Ora deve ritornare nella casa d’origine per partecipare al funerale della madre, ma il viaggio risulta estremamente difficile, bizzarro e spaventoso, ricco di surreali ostacoli che rallentano Beau, obbligandolo ad affrontare le più assurde vicende.
Martin Scorsese ha espresso un giudizio pienamente positivo nei confronti dell’opera: «Il gusto per il rischio è così unico e potente, e non ci sono molti registi che oggi siano in grado di farlo a quel livello»[2]. Aster dimostra questo gusto per il rischio infittendo la trama scena dopo scena, con un crescendo di paranoie ed incubi a non finire: in Beau ha paura c’è di tutto, ci sono Freud e Kafka, vengono citati David Lynch e Michel Gondry, è presente la castità castrante, si parla di un mondo alla deriva che rispecchia le derive familiari, sono onnipresenti miriadi di ipocondrie. Quello di Beau è un viaggio picaresco nelle turbe irrisolvibili di un uomo soggiogato dalla figura materna e affossato dalle paure insormontabili: un cammino fatto di molto dolore e flebile speranza, un’Odissea aperta a tante interpretazioni che spiazzano e stimolano l’attenzione e la riflessione.
Attraverso una consistente sceneggiatura ed una regia capace di passare, con abilità, dalla frenesia ad una sospensione tesissima, Beau ha paura ci mostra esaurientemente l’eterna prigionia, la presenza della “gabbia” (sia fisica che mentale) che accompagna Beau per tutta la vita: l’appartamento in città, la casa dove viene “ospitato” da due ambigui personaggi, il bosco dove gode di un breve attimo di speranza, la casa materna, la soffitta, ogni luogo è una asfissiante gabbia per Beau, dalla quale non è riuscito mai a fuggire. E Beau viaggia, di prigione in prigione, attraversa mondi fisici e soprattutto mentali, diventa nocchiere delle sue turbe: può soltanto navigare tra i suoi dolori senza poter mai uscire dal mare del suo senso di inadeguatezza e di vergogna. Beau sembra il barcaiolo di Arnold Böcklin, diretto ad un’isola dei morti dove lui è l’unico morto, l’uomo che non ha mai vissuto: bloccato dallo spossante peso delle colpe che non ha commesso, l’invalidante ed ossessiva colpevolezza di Beau è, per lo spettatore, un campionario di spunti di meditazione, una visione dalla quale si esce decisamente inquieti, soffocati e, al tempo stesso, aperti ad una esplosiva serie di irrefrenabili ragionamenti ed ipotesi sui fantasmi di questo lungometraggio.
Silvio Gobbi
Note
[1], [2]: https://www.rollingstone.it/cinema-tv/interviste-cinema-tv/beau-ha-paura-ari-aster-io-joaquin-phoenix-e-il-film-della-vita/737638/