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La recensione: “Babylon”, il film più sfrenato di Damien Chazelle

Il cinema è un carrozzone folle capace di partorire storie immortali, tali da rimanere impresse nella mente degli spettatori fino alla fine dei loro giorni. “Partorire” è il verbo giusto, perché ogni lungometraggio è come una gravidanza che investe centinaia di soggetti: registi, sceneggiatori, attori, produttori e maestranze tecniche mai ricordate. La gestazione è lunga e faticosa per tutti, magari la pellicola può anche creare problemi una volta uscita nelle sale: il film che nasce può consacrare i propri autori o devastarli. Damien Chazelle lo sa bene e per questo ha realizzato Babylon, il film più sfrenato della sua carriera.
Ambientato nella Hollywood tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, periodo del rivoluzionario passaggio dal cinema muto al sonoro (un’epoca trattata anche da altri autori, ricordiamo The Artist di Michel Hazanavicius), il lungometraggio vede protagonisti una star del cinema muto in declino, Jack Conrad (Brad Pitt), la giovane attrice emergente Nellie LaRoy (Margot Robbie) e Manuel “Manny” Torres (Diego Calva), un ragazzo che desidera diventare un produttore hollywoodiano di successo. In più di tre ore di film, le vite di questi tre soggetti si intrecciano e si scontrano, in un continuo susseguirsi di feste e sfrenatezze, solitudini e depressioni, apici e fallimenti. Chazelle muove il proprio sguardo in modo frenetico, con carrellate veloci e sequenze martellanti alternate a momenti di riflessione, e così il tempo dei protagonisti vola via in un attimo, come i loro sogni: il mondo di Jack, Nellie e Manny cambia repentinamente, come se fosse una manciata di secondi, e la loro vita scorre via in un istante senza rendersene conto.
Babylon è questo, è il tempo inafferrabile e velocissimo, è eccesso e storia, è amore per il cinema visto come la più meravigliosa – e terribile – creatura ideata dall’uomo. Il cinema era, ed è, follia, e nell’ombra della gloria dello star system si nasconde un affascinante serpente a sonagli pronto a mordere la giugulare senza lasciare scampo. Non soltanto Hollywood, ma tutto il mondo della Settima Arte in generale è esplosione ed implosione, energia e collasso: si arriva alle stelle per poi sprofondare nei più profondi gironi infernali, quasi danteschi, ricolmi di perdizione, escrementi, ingordigia ed insensatezza.
Ma questo mondo aspro, fondato sull’immagine, in balia delle produzioni, delle mode e foraggiato anche da una critica sterile e morta come un albero secco, lascia in eredità ai posteri la magia delle sue pellicole. Le esistenze misere e difficili che costellano la galassia cinematografica, donano al futuro le immagini eterne delle storie narrate e le emozioni che suscitano. Come intuisce Manuel a distanza di anni, le vite spezzate ed i sogni infranti sono il nutriente della bellezza impressa sulle pellicole: la meraviglia nasce dalla sofferenza ed al pubblico rimane, e deve rimanere, la parte migliore del sogno, e non gli incubi che lo hanno circondato ed alimentato.

Silvio Gobbi

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