Steven Spielberg torna al cinema con The Fabelmans, un film dove ripercorre (in parte) la storia della sua vita e il suo progressivo innamoramento per la Settima Arte, una passione maturata sin dalla più tenera età. Spielberg racconta, attraverso il suo alter ego Samuel “Sammy” Fabelman, l’impatto che ha avuto il cinema nella sua vita: un dardo in pieno petto, un irrefrenabile treno in corsa che si scontra violentemente contro un auto lungo i binari ingurgitati dalla notte. Questa è l’immagine che ricorda Sammy del primo film che vede al cinema (Il più grande spettacolo del mondo, di Cecil B. DeMille, 1952), questa la prima impressione cinematografica che si radica nel bambino: il cinema come forza esplosiva e spaventosa, coinvolgente ed indimenticabile. Cresce così la sua passione, comincia a girare cortometraggi con le sorelline, gli amici ed i compagni di scuola, per raccontare storie di fantasia e per controllare l’imponderabilità degli eventi, la forza irrefrenabile, nel bene come nel male, della vita.
Ma il cinema non è solo finzione per Sam, è anche scoperta della verità e possibilità di poterla manipolare e modificare, migliorare o peggiorare. Attraverso la cinepresa, Sammy filma (per caso o perché la cinepresa, in realtà, sa sempre cosa vuole riprendere a prescindere dal volere dell’operatore) i segreti della sua famiglia, di sua madre alla quale è molto legato: il cinema si mostra così come il luogo della meraviglia e della sofferenza, della verità e della bugia, delle risposte e dei dubbi.
The Fabelmans, definito da Spielberg stesso una lettera d’amore al cinema e alla sua famiglia, è un lungometraggio fitto, ricco di emozioni sincere e mai nauseanti, denso ma non opprimente, cinefilo senza pedanteria e semiautobiografico senza trascendere nei clichés del genere. La regia di Spielberg non è mai didascalica, mai anonima: come in ogni suo altro film, la cinepresa segue i personaggi con movimenti veloci e ammalianti e, grazie anche all’oculato montaggio, l’opera è tanto dettagliata quanto dinamica. Le figure dei genitori sono centrali nella vita di Sam: la mamma, musicista e “artista” come il figlio, il papà, ingegnere di talento, uomo buono e pragmatico. Spielberg raffigura le loro forze ed i loro limiti con gli sguardi giusti, donando alla nevrosi della madre un tocco sincero e leggiadro, mai sprezzante, e rappresentando ottimamente la sofferenza del padre per il matrimonio difficile: inquadrato dal basso, con il tetto in bella vista, per farci capire quanto si senta schiacciato dalla situazione (una soluzione cinematografica utilizzata dal regista in certe inquadrature di Schindler’s List).
Questo è Spielberg, colui che sa inquadrare le sue storie ed i suoi personaggi, colui che sempre ha una visione, un orizzonte nel suo sguardo cinematografico. Spielberg è ancora quel ragazzo che un giorno ha incontrato il maestro John Ford e dal quale ha imparato la lezione fondamentale: l’orizzonte dell’inquadratura deve puntare in basso o in alto, mai in mezzo. Lo sguardo, nel cinema come nella vita, deve andare oltre il centro, oltre a quello che possiamo vedere normalmente e The Fabelmans letteralmente riesce a sfondare ogni limite dell’orizzonte.
Silvio Gobbi