Una donna viene mollata dal proprio amante. L’uomo se ne è andato dall’appartamento, ma ha lasciato lì tutte le sue cose: deve ancora passare a ritirarle (anche il cane ha abbandonato, e l’animale vaga, senza pace, tra le mura domestiche alla ricerca del padrone). Lei aspetta il suo arrivo, perché vuole vederlo un’ultima volta, ma lui non compare mai. All’improvviso, la chiama, e la donna comincia a parlare con l’ex, a sfogarsi, raccontando l’amore assoluto, profondo e viscerale che provava per lui, e del dolore che la separazione ha provocato in lei: la tensione del monologo cresce lungo il suo sviluppo.
Questo è The Human Voice, l’ultimo breve film (dura trenta minuti) del regista spagnolo Pedro Almodóvar, ora distribuito al cinema (liberamente tratto dall’opera di Jean Cocteau, La Voix humaine, 1930). Tilda Swinton è l’unica protagonista di questa vicenda: una prova attoriale magistrale. Un lavoro breve e intenso, dal ritmo serrato, dove il regista concentra tutto il suo cinema, le sue donne, i loro drammi e dolori in un’unica figura. La protagonista sintetizza passione e dolore, lega la vita alla morte, contornando il tutto con una punta di ironia che non stona, che dona alla vicenda quella leggera assurdità di cui necessita. La donna di The Human Voice ricorda Pepa, di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), Leo Macías/Amanda Gris di Il fiore del mio desiderio (1995), e tante altre protagoniste delle precedenti pellicole di Almodóvar: tradite dai propri uomini, incapaci di troncare definitivamente il rapporto e di liberarle (imbastendo uno stremante gioco di addii e di ritorni). I rapporti umani sono così maniacali che perfino gli oggetti e le ambientazioni fungono da protagonisti, caricandosi delle tensioni umane: l’appartamento della donna, interamente ricostruito in un capannone, è pregno di colori forti, arnesi caratteristici ed inconfondibili, balconi pieni di piante e fiori da annaffiare che vivono le esperienze dei loro umani padroni e costituiscono, quindi, il prolungamento della loro essenza e presenza (caratteristica presente in ogni lavoro del regista).
Regista della gioia e del dolore, simultaneamente greve e leggero anche nei momenti più drammatici, Almodóvar, con questo suo concentrato cinematografico, ci ricorda quanto la finzione sia reale, quanto il teatro ed il cinema, attraverso la bugia narrativa, riescano a raccontare la vita vera con i suoi ostacoli. L’insistente e perfetta ricostruzione dell’appartamento contrasta con l’aspetto grigio e scarno del magazzino che lo contiene: allegoria di come la finzione (il capannone che ci estrania, perché ci riporta agli occhi che è tutto ricostruito, tutto una messinscena) racchiuda la realtà (l’appartamento interno al capannone, dove noi ci immergiamo nella sofferenza della donna). Così, questo monologo ininterrotto, infarcito di citazioni non solo “almodóvariane” (notiamo infatti Kill Bill, Truman Capote, addirittura Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson), ci rammenta di come la finzione, quando onestamente ed accuratamente narrata, possa essere vera tanto quanto la vita: Stephen King ha scritto “il romanzesco è la verità dentro la bugia”, ed è così che si muovono i grandi autori.
Silvio Gobbi