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A Hidden Life
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Recensione: “A Hidden Life”, un film di Terrence Malick

Quando Terrence Malick decide di realizzare un film, siamo certi che il risultato non sarà scialbo. Il suo ultimo lavoro, A Hidden Life, conferma la meticolosità di questo regista riservato, anti-hollywoodiano, sempre lontano dai riflettori e dalle passerelle. L’opera è uscita (in Italia) nell’agosto del 2020, ma la distribuzione non è stata capillare: fortunatamente, possiamo noleggiarla attraverso piattaforme come Prime Video e Chili.

In questo lungometraggio, Malick racconta la storia di Franz Jägerstätter, contadino austriaco e cattolico del villaggio di Sankt Radegund: l’uomo si rifiuta di combattere per l’esercito di Hitler e questa obiezione di coscienza, convinta e irremovibile, gli costa la condanna a morte, per alto tradimento, nel 1943. Dal momento della Anschluss iniziano gli attriti per il protagonista. La comunità si adegua al regime nazista, si risveglia negli austriaci una disperata voglia di riscatto: sono pronti a tollerare l’invasione nazista pur di ritornare alla ribalta in Europa, credendo così di riprendersi dalla sconfitta subita nella Grande Guerra. Ma la coscienza di Franz gli impedisce di aderire al nazismo. L’intera comunità va contro questa sua decisione, anche il vescovo gli ricorda: «Hai dei doveri verso la Patria. È la Chiesa a dirtelo. Conosci le parole dell’Apostolo? “Che ogni uomo sia sottomesso ai poteri al di sopra di lui”». Franz prova un immenso dispiacere per la cecità della sua gente, e si stringe sempre di più a sua moglie e alla campagna che li circonda.

Malick narra questa vicenda mantenendo il suo stile, sottolineando, come sempre, la bellezza della natura, la sua forza, la sua intima purezza capace di ristorare l’animo dell’uomo. La meraviglia della natura è rappresentata senza alcun retorico idealismo, senza forzature. Gli ampi paesaggi di montagna si contrappongono al claustrofobico carcere, dove Jägerstätter è imprigionato e torturato dai secondini. Ma lui, tanto più rimane in galera, tanto più si convince di essere nel giusto, perché la giustizia, in certe occasioni, è fare non ciò che va fatto, ma ciò che gli altri non hanno il coraggio di fare: nel caso di Franz, dire un secco no a Hitler. A Hidden Life è una storia singolare e, al tempo stesso, universale, perché non ha segnato soltanto la vita di un uomo, ma l’umanità intera: una “microstoria” che invade la “macrostoria”. Ha scritto Daniele Menozzi: «[…] da un lato netta appare la sua convinzione che la guerra scatenata dal nazismo, in quanto atto di aggressione, non può essere qualificata come giusta; dall’altro lato ferma risulta la sua rivendicazione di una valutazione personale, al di là di quanto dichiarato dall’autorità ecclesiastica locale, circa la moralità delle decisioni belliche assunte dal potere politico. […] in questa chiara affermazione del primato della coscienza sull’obbedienza in ordine alla partecipazione a un conflitto sta la singolarità e il valore storico della sua presa di posizione» [1].

Il cinema di Malick è sempre costellato da individui che vivono drammi profondi ed esistenziali, alla ricerca di una irraggiungibile soddisfazione. Con A Hidden Life, l’autore rappresenta una storia in linea con la sua produzione. La vita di Jägerstätter ricalca quella ricerca, tanto materiale quanto spirituale, di una serena esistenza, puntualmente rovinata dagli eventi e dalla impossibilità di comunicare e farsi comprendere da chi ci circonda (come accade in The Tree of Life, Knight of Cups e Song to Song). Apparentemente lontano, quel contadino austriaco è, invece, il perfetto personaggio per la filmografia di un regista sempre defilato e, al tempo stesso, fondamentale nel mondo della Settima arte. Silenzioso e risoluto, convinto delle proprie posizioni e della propria visione, Malick non è mai sceso a patti, non ha mai impoverito i suoi lavori per ottenere una maggiore visibilità ed un mercato più ampio. Questo film biografico, visivamente perfetto, che non pecca della tipica, banale, agiografia che circonda i biopic, non si fa dimenticare. Un racconto schietto, introspettivo e non roboante, delle vicissitudini di un uomo sincero che ha commesso, come unico sbaglio, quello di seguire la propria coscienza e non quella degli altri.

Silvio Gobbi

[1] Daniele Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 157-158.

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