Malcolm e Marie sono una coppia. Lui è un regista emergente, lei una ex attrice: i due convivono in una stupenda casa. Sono da poco rientrati nella loro dimora, è una serata importante: il nuovo film diretto da Malcolm è stato proiettato in anteprima, ed il pubblico e la critica lo hanno adorato. Lui è ovviamente euforico, ma Marie, stranamente, no. La ragazza è evasiva e fredda. Perché? Perché Malcolm, durante la presentazione del film, non l’ha citata nel discorso di ringraziamento. Può sembrare un’inezia, ma dietro a questo “grazie” non detto, c’è un mondo di incomprensioni pronto a venire fuori: durante questa notte, i due diranno ciò che pensano, attraverso una lite che spazia dai sentimenti personali alle opinioni sul mondo del cinema.
Malcolm & Marie è il nuovo dramma di Sam Levinson, prodotto da Netflix. Un film girato in bianco e nero, interamente all’interno della casa e con solo due attori, John David Washington e Zendaya, ben calati nei loro personaggi (in particolar modo, ottima la performance di lei).
Un’opera incentrata sulla crisi di una coppia: ne abbiamo visti tanti di film del genere, su questo non si discute. Ma il lavoro di Levinson si distingue per come l’autore riesce, tramite il continuo dialogo tra i due attori, ad inserire un’onesta ed efficace “critica alla critica cinematografica”. In questo susseguirsi di alti e bassi tra Malcolm e Marie, dove la ragazza accusa il compagno di aver sfruttato il doloroso passato di lei, e lui rilancia facendole capire che lei deve tutto a lui, l’autore incastra delle memorabili stoccate al mondo della critica cinematografica. Il mondo della critica e quello della regia si stanno sempre di più allontanando. Levinson, attraverso le parole di Malcolm, attacca quei critici che devono per forza etichettare ogni film, ogni autore, con una categoria predefinita: film politico, romantico, un autore autentico, banale, e via dicendo. Recensori pronti a sezionare ogni opera, a stroncare, a catalogare secondo una spiegazione che rientri, forzatamente, in certi standard.
«Non c’è niente di indispensabile: movimenti, macchina, luci […] non sono importanti. È quello che uno vuole. […] Lei non guarda il film, le idee che contiene, le emozioni del mestiere: il cinema non deve avere per forza un messaggio. Deve avere cuore, elettricità. Imbecilli così strappano al mondo i suoi misteri, vogliono tutti i dettagli spiegati». Questo dice Malcolm, dopo aver letto una recensione sul suo lavoro. Una recensione positiva, ma incapace, secondo lui, di arrivare al cuore del film, ingolfandosi su elogi e commenti stereotipati. La critica cinematografica è sempre più distante dal nucleo delle opere di cui parla, da ciò che gli autori rappresentano ed hanno in mente: due mondi, critica e regia, sempre più lontani. E questa crisi nel mondo dell’arte è lo specchio della crisi dei due protagonisti: un rapporto di amore ed odio che ormai è sfociato nella incomunicabilità e nell’astio.
Viviamo nel periodo degli “assoluti”: un film o è un capolavoro o è un fallimento, non si sanno più cogliere le sfumature di ogni pellicola (i suoi punti di forza, le sue debolezze e le sue unicità). Ciò non significa che non ci sia il bisogno di parlare dei difetti di un lavoro, ma bisogna descriverli con sincerità, intelligenza, per aiutare l’autore: cercare di instaurare, attraverso il commento, una sorta di dialogo proficuo per il cinema nella sua totalità. Ma, ora più che mai, non esiste lo scambio utile: le lame della critica sono sempre più affilate e, di conseguenza, il dialogo con i registi è sempre più spento. Come accade tra Malcolm e Marie: i due non si confidano da troppo tempo. Dietro a quel “grazie” non pronunciato, c’è un insieme di parole non dette, di discorsi non fatti che si sono trasformati in abissi e ferite. I due possono recuperare la fiducia e l’affiatamento, e magari questa lite è per loro un nuovo inizio: ora tocca al mondo del cinema subire quel grande shock affinché critici e registi comincino a dialogare (ma, al momento, è ancora ben lontano).
Silvio Gobbi