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Mary Shelley
Mary Shelley

“Mary Shelley”: da ombra a punto di riferimento

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,805 Visite

Mary Wollstonecraft Godwin (1797-1851), nota a tutti come Mary Shelley, fu la moglie del poeta inglese Percy Bisshe Shelley (1792-1822) e autrice del celebre romanzo Frankenstein; ovvero il moderno Prometeo (pubblicato per la prima volta nel 1818). Un romanzo dall’impianto gotico-romantico, specchio della bestialità dell’uomo moderno, così evoluto da poter far tornare in vita i morti, ma incapace di amare le proprie creature, generando solitudine, sofferenza e morte. La storia dell’autrice è raccontata in Mary Shelley di Haifaa al-Mansour, prima donna regista dell’Arabia Saudita. L’autrice araba narra, in maniera lineare, la vita della protagonista: figlia di William Godwin (1756-1836), il famoso pensatore inglese di ideali repubblicani, radicali e vicini all’anarchia, e Mary Wollstonecraft (1759-1797), nota precorritrice del femminismo, morta dieci giorni dopo aver dato alla luce Mary. Un giorno, la giovane protagonista conosce il poeta prodigio Percy B. Shelley, di buona famiglia ma dalle mani bucate, grande ammiratore degli scritti di Godwin. Si innamorano e fuggono insieme, ma più il tempo passa e più diventa evidente la differenza tra i due. Entrambi credono nel “libero amore”, ma divergono in un aspetto fondamentale: per Mary l’amore è libero quando si può scegliere, senza alcun tipo di coercizione, chi amare, invece Percy intende per “libero amore” la possibilità di poter andare con chiunque, senza vincoli di coppia. La situazione si fa sempre più pesante, fino al soggiorno, nel 1816, presso la dimora a Ginevra di Lord George Gordon Byron (1788-1824; figura totemica per i romantici dell’epoca), dove la distanza tra Mary e Percy diventa ancor più evidente. In quella villa, la giovane donna si scontra con l’atteggiamento del misogino e meschino Lord, mentre Percy pende dalle labbra del “nobile” poeta. Questa ennesima esperienza negativa fa scattare in Mary la molla per dar vita al soggetto di Frankenstein, il quale viene stampato dopo varie peripezie: nessun editore intende pubblicare un libro scritto e firmato da una donna. La prima edizione del libro esce, infatti, in forma anonima.

Mary Shelley è un film biografico degno di nota. La protagonista (interpretata da una giovanissima e capace Elle Fanning) è forte, lontana dai vomitevoli stereotipi romantici e dalle emozioni puerili. Per Mary l’amore è un sentimento serio e duraturo, non un’infatuazione. Il vero amore, quello autentico, è libero nel senso che non deve essere condizionato da bigotti vincoli sociali e religiosi, senza cedere alla superficialità. Mary è figlia della libertà: è una Wollstonecraft Godwin, in lei risiede sia lo spirito indipendente della madre che la concezione libertaria del padre. La sua vita è una continua ricerca della libertà, in amore e non solo. Libertà di poter far emergere il proprio talento in una realtà maschilista (Byron credeva che le donne fossero sufficientemente intelligenti per capire i suoi pensieri, ma non abbastanza da poterne creare di loro originali). Mary Shelley crede che le donne non abbiano bisogno di nessuno per essere complete e forti: possono badare a loro stesse. Questo film è una storia di amore, di libertà e, soprattutto, di amore per la libertà. Haifaa al-Mansour ricostruisce la vicenda attraverso delle inquadrature che sembrano quadri: ogni immagine è un dipinto che spazia attraverso toni neoclassici, preraffaelliti e romantici. Il ritratto non è agiografico, ed il personaggio che ne esce è attuale, vivo, con pregi e difetti. Le sofferenze della protagonista sono narrate senza patetismo: la banalità è tenuta a dovuta distanza. Le peripezie rendono la vita di Mary un incubo. Un incubo, come il famoso dipinto di Füssli che appare nel film. È come se la Shelley fosse la dormiente della tela, incapace di spostarsi per via del mostro che le sta sulla pancia: “L’incubo” di Füssli (1781) è la metafora della sua condizione esistenziale. Il mostro di Mary è frutto della pena quotidiana, generata dalla situazione che la opprime nella vita reale. Ma, a differenza della pallida dormiente ritratta dal pittore svizzero, la Shelley riesce a fare di quella creatura opprimente il soggetto del suo libro: trasforma il suo dolore in quel romanzo che la consacra a livello internazionale, rendendola più nota del marito Percy. Da ombra che fu, ora Mary Shelley è, giustamente, un punto di riferimento.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2018-08-31
+Mauro Grespini
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