di Alberto Pellegrino
Amedeo Gubinelli è stato uno scrittore capace di esprimersi in prosa e in poesia, nel libro, nell’opera teatrale e sulle pagine di un giornale, perché dotato di un personalità complessa. La sua creatività l’ha portato a inventare un personaggio come Sor Ansermo depositario di un’antica cultura contadina, un classico homo rusticus dal cervello fino che, durante il Rinascimento, era già arrivato sulle scene grazie alle commedie di Ruzzante e a Giulio Cesare Croce inventore dei personaggi di Bertoldo e Bertoldino. Era quindi logico che Ansermo dovesse arrivare sul palcoscenico come protagonista di commedie di assoluto rilievo nel panorama del teatro dialettale marchigiano del Novecento.
Del resto Gubinelli da sempre aveva amato il teatro e aveva “fatto la gavetta”, scrivendo delle farse per il Teatro dei Giovani (Scusi, è suo questo cadavere?, Palmiro quasi vampiro, le trascrizioni dialettali dell’Aulularia e dei Menecmi di Plauto, dei Morti non pagano le tasse di Nicola Manzari), adattando per le scene i racconti Lu cumiziu, Gustinellu ragioniere, La cianca matta, Lu fidanzamento, E’ morto vabbu. Da sempre egli ha sostenuto l’importanza del teatro come “mezzo di comunicazione sociale importantissimo… (che) serve per trasmettere un messaggio immediato. Lo spettatore non fa nemmeno lo sforzo di leggere, viene personalmente coinvolto a vivere un’esperienza diversa dalla sua, entra quasi nell’esperienza stessa. Il messaggio s’imprime più facilmente nell’animo per la commozione e l’ilarità o l’interesse che la rappresentazione suscita. Oltre a dare un’ora di svago, di distensione… è un mezzo educativo straordinario, sia per gli spettatori, sia per gli attori, che con tale esperienza crescono individualmente, arricchendosi di cognizioni, maturandosi a livello comunitario” (Il teatro come attività pastorale, L’Appennino camerte, 30 maggio 1987).
Il ciclo teatrale di Sor Ansermo
Nel 1977 Amedeo Gubinelli dà inizio al ciclo teatrale dedicato a Sor Ansermo con alcune commedie nelle quali questo personaggio si aggira come sperduto nel “mondo alla rovescia” di una società marchigiana urbanizzata che sta stravolgendo i valori del passato. Nonostante i cambiamenti questo uomo semplice, onesto e bonario si mostra capace di affrontare con realismo e ironia le varie situazioni familiari e sociali; nonostante si lasci talvolta prendere dall’ira, quando non riesce a comprendere il comportamento degli altri e soprattutto dei giovani, dimostra di saper resistere alle avversità con “allegrezza” e di saper prendere la vita come un “gioco” per dare sollievo all’esistenza quotidiana. Don Amedeo, in uno scritto apparso postumo, motiva così le sue scelte teatrali: “Ho scelto la commedia per due semplici motivi: il promo è perché tutte le situazioni della vita mi fanno ridere e la satira colpisce di più e colpisce tanto. Ho fatto soffrire parecchia gente con questa satira. Questo è il naturale mio modo di vedere un difetto e quando devo dire qualcosa sferzo e allora devo ricordarmi che bisogna essere buoni, ma tante vote… Il secondo motivo è che la gente vuole che io la faccia ridere… per forza, anche e non solo a teatro” (L’Appennino camerte del febbraio 1991).
Il ciclo inizia con Quanno ‘na fija se spusa (1977/1979), una commedia ambientata negli anni Quaranta/Cinquanta e incentrata sui personaggi di Ursula e di Teresciola, la figlia che deve unirsi in matrimonio con Francinellu. Ansermo, spalleggiato dall’altra figura tradizionale di Ziu ‘Ngilì, sarà costretto a fronteggiare con la sua saggezza contadina le bizze e le sceneggiate di queste due donne che stavano rischiando di trasformare una festa in tragedia.
Per seconda viene la commedia Natale a casa de Sor Ansemo (1978), liberamente ispirata al capolavoro di Edoardo De Filippo ma rigorosamente legata al mondo contadino marchigiano con le sue tradizioni religiose e gastronomiche, il presepe e il gioco della tombola. Nonostante l’atmosfera natalizia, sorgono delle complicazioni e delle tensioni provocate dalla gelosia, da passeggere incomprensioni, da eventi imprevisti rappresentati con il consueto e sapiente dosaggio tra comicità e umanità, in una vicenda che si conclude con l’affermazione dei valori della famiglia, con la gioia per una nuova vita che nasce in parallelo con un’altra e più elevata Natività.
La terza commedia Capita a 50 anni… figurete a 20! è invece ambientata in una piccola città marchigiana, dove la famiglia di Sor Ansermo si è trasferita e ha subito un processo di urbanizzazione, lasciando solo a Pacì (il genero “sapiente”) la responsabilità della conduzione dei terreni agricoli. Tutta la famiglia è costretta a relazionarsi con alcuni personaggi “urbani” come il parroco, il medico condotto, una petulante vicina, una cartomante. Tutti (meno Ziu ‘Ngilì) si adattano al nuovo contesto cittadino a cominciare da Ursula, dalle figlie Teresciola e Gregoria, dal genero e da Peppetto, costretto a rientrare dal servizio militare per porre rimedio a un “incidente di percorso” avuto con la fidanzata. A subire gli effetti negativi dell’urbanizzazione sarà proprio Ansermo, un sessantenne messo in crisi da pseudo-sentimenti amorosi e da un illusorio e nostalgico ritorno alla gioventù. Quando in una balera fa la conoscenza di una giovane e bella ragazza (la “bionda”), egli finisce per rimanere affasciato da un modello di sex simbol quotidianamente proposto dalla televisione e dalla pubblicità. Così questo ingenuo contadino inurbato rischia di pagare a caro prezzo la “sbandata” per colei che si rivelerà una “professionista dell’amore”. Una volta scoperta la presunta tresca, Ursula riunisce il parroco e il tribunale di famiglia per emettere una sentenza di condanna contro il marito, che invece riesce a superare i suoi sensi di colpa e a ritrovare un equilibrio psicologico-sentimentale per riaffermare, anche nei confronti del figlio, quei valori familiari in cui ha sempre creduto. Alla fine la stessa Ursula finirà per venire a patti con la sua intransigenza morale, facendo riemergere quella carica di umanità che ha sempre caratterizzato la sua esistenza.
Con la commedia E Settempeda non sè bbrusciò Gubinelli riporta Ansermo indietro nel tempo, introno al 500 d.C., quando la città è un municipio romano e incombe su di lei la minaccia dell’assedio e della distruzione da parte dei Goti guidati da Totila. Il piccolo senato cittadino (composto dai rappresentanti dei moderni partiti politici) dibatte il problema della pace con Ansermus colonus che si atteggia a tribuno della plebe contro l’aristocratico Valterone che guida il partito della guerra. Nel frattempo s’intrecciano gli amori segreti tra Theresia puellas e Valterino, il figlio del nobile guerrafondaio. Alla fine è la sagace e decisa Ursula uxor a trattare e a ottenere la pace da un Totila attratto dalle sua grazie femminili. La città sarà salva e le nozze dei due innamorati sanciranno la pacificazione tra patrizi e plebei. Naturalmente abbondano i riferimenti dalla seicentesca Historia dell’antica città di Settempeda e della sua distruzione dello storico locale Domenico Cancellotti, dalla commedia La guerra di Troia non si farà di Giroudoux e persino dal celebre fumetto Sturmntruppen di Bonvì con il tedesco maccheronico parlato dai Goti, per finire con le citazioni appositamente adattate di celebri brani poetici di Dante, Alessandro Manzoni e Luigi Mercantini, dato che i patrizi parlano con una lingua italiana in versi, mentre i plebei usano il dialetto marchigiano.
L’ultimo testo, che ha per protagonista Sor Ansermo, è Ma che se campa affà ?! (1988), poi riscritta nel 2015 con il titolo Questa è la vita. La storia si svolge nei primi anni del Novecento e tutta la famiglia si è trasferita in città: Peppetto, la moglie Marietta e la figlia Claretta lavorano in fabbrica, mentre la vita sociale si svolge plein air in una piazzetta sulla quale si affacciano le case di Ansermo, Ursula, Peppetto e famiglia; dove si trova l’osteria di Antò, un oste “innamorato” con una moglie molto gelosa; la bottega di Surì, un calzolaio curioso e chiacchierone; l’abitazione di Nunziatella detta “Nina”, una bella ragazza alquanto “generosa” con gli uomini. Siamo alle soglie di un mondo che sta cambiando, ma dove ancora sopravvive una società del “vicinato” che, nel bene e nel male, esprime una sua forma di solidarietà pur in mezzo a maldicenze, scenate di gelosia, sbandate provocate dalla “ludopatia”, inattese gravidanze. Per prima sarà Ursula, con la sua irruenza, a cercare di rimettere ordine e a fare giustizia di menzogne, sospetti ed errori, ma sarà ancora Arsermo, dopo aver superato un momento di smarrimento e di pessimismo, a riportare serenità, amore per la vita e speranza in quel piccolo “mondo”, dove sembrava che tutti avessero smarrito la strada da percorrere.
Il teatro religioso
Dopo la prima esperienza della Sacra Rappresentazione della Passione basata sulla drammatizzazione del Vangelo di Matteo, Gubinelli ritorna al teatro religioso con La legenda dei Santi Severino e Vittorino (1985), prendendo a modello le sacre rappresentazioni medioevali con l’inserimento di brani tratti dai Salmi biblici e dall’Ufficio liturgico. L’autore assume come fonte storica sia la Vita Severini et Victorini di anonimo dell’VIII-IX secolo, riportata nelle Antichità Picene di Giuseppe Colucci (1786), sia la Vita di San Severino e di Vittorino suo fratello di Giovan Battista Cancellotti (1643).

Amedeo Gubinelli, Thea Malandra e Roberto Chiaraluce in La legenda dei santi Severino e Vittorino (Foto dello Studio Serini)
La Rappresentazione, suddivisa in un prologo e nove quadri, inizia con i due fratelli che decidono di vivere come eremiti e donano tutti i loro beni ai poveri. Vittorino dice addio alla sua promessa sposa Claudia, che non accetta questa sua scelta e cerca invano di trattenerlo. Ben presto l’eremo diventa un luogo di pellegrinaggio e di preghiera per molti fedeli richiamati dalla fama di santità dei due fratelli che non sono esenti da diaboliche tentazioni: a Vittorino il demonio appare assumendo il corpo di Claudia e pronunciando un bellissimo monologo ispirato al dramma Salomè di Oscar Wilde; con Severino il Maligno assume il volto del Potere e gli offre la conquista della gloria, della ricchezza e della potenza terrena. Dinanzi a Severino si presenta una delegazione di settempedani che hanno l’incarico di offrirgli la carica di Vescovo della città. Dopo molte esitazioni e rifiuti, finalmente egli cede alla insistenze e alle preghiere dei delegati e accetta la carica per servire con umiltà Dio e il popolo.
Siamo nell’anno 543 d. C. e si avvicina per la città un periodo drammatico segnato da carestie, da pestilenze e dalla guerra gotica. Severino si prodiga per alleviare le sofferenze del popolo, ma è preoccupato per il futuro, per cui esorta tutti a rifugiarsi sui monti in cerca di salvezza, perché sente ormai vicina la fine dei suoi giorni, pertanto rivolge al popolo questo estremo saluto: “E’ giunto per me il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora aspetto da Dio, giusto giudice, la corona di giustizia”.
Il capolavoro teatrale di Amedeo Gubinelli
Nel 1981 Gubinelli ha scritto la commedia Patre pe’ procura considerata il suo capolavoro per i contenuti profondamente umani, per lo spessore dei personaggi ben definiti nei loro aspetti psicologici, sociologici e religiosi, per una struttura drammaturgica dalla precisione cronometrica, per il continuo ed efficace alternarsi di componenti comiche e tragiche.
L’autore stesso era consapevole del valore di questo lavoro: “Ritengo che la mia commedia più bella sia Patre pe’ procura. Però non l’ho giudicata io. Quando l’ho scritta avevo molte titubanze, perché era una commedia di un genere tutto diverso, anche drammatica in qualche punto; l’ha giudicata il pubblico”. Gubinelli abbandona il tradizionale mondo di Sor Ansermo e imbocca una strada finora inesplorata “per mostrare – egli dice – la vita quotidiana di un prete, i suoi problemi, le sue difficoltà, il piccolo mondo che circonda la parrocchia”. L’opera, dopo una lunga e travagliata scrittura e riscrittura sottoposta a tagli e revisioni, va finalmente in scena con il risultato di essere subito accolta con grande favore dal pubblico e con giudizi positivi da parte della critica.
La vicenda è ambientata in un paesino delle Marche ed è divisa in due spaccati temporali: la prima parte è collocata agli inizi della anni Sessanta e la seconda negli anni Settanta. Gubinelli usa gli ingredienti tipici della commedia di costume per far passare un messaggio carico di riflessi umani e morali, partendo dalla figura di questo sacerdote che, pur sorretto da una forte vocazione, sente dentro di sé il peso di una condizione esistenziale segnata dalla solitudine, avverte il vuoto di una mancata paternità. Con grande coraggio egli sfida le regole ecclesiastiche e le convenzioni sociali per adottare un bambino abbandonato in un confessionale, facendo nascere una nuova famiglia che porta una ventata d’amore e di speranza.
Intorno a Don Piero ruota un piccolo e variegato universo umano: la domestica Celestina, apparentemente rude ma ricca di materna umanità; il sacrestano Pasquà, intrigante e pettegolo ma fedele compagno del sacerdote; l’aristocratica Donna Alfonsina, altezzosa, bigotta e sostanzialmente ipocrita; Annina, la ragazza-madre “più sfortunata che leggera”, che non ha avuto la forza di assumersi le sue responsabilità di fronte a una comunità che l’avrebbe sicuramente condannata; la petulante e invadente Dilina, una “Figlia di Maria” stagionata zitella per forza e beghina per vocazione. Tutti questi elementi fanno della commedia un piccolo capolavoro ricco di una forza interiore e di una carica di spiritualità che non sono mai compromesse dalle esilaranti parentesi comiche. In questa storia tutte le difficoltà umane trovano la loro soluzione e sublimazione grazie al protagonista animato da una salda fede nel messaggio evangelico, da un amore per il prossimo che sa tradursi in comportamenti carichi di profonda umanità, da un bisogno d’affetto e di paternità, sentimenti che appaiono naturali per un sacerdote generoso e un po’ scanzonato che riesce a superare sospetti, accuse, calunnie maliziose destinate a ledere la sua dignità, a vincere gli ostacoli dei potenti e delle autorità ecclesiastiche per diventare un “patre pe’ procura” e vivere così la bella avventura della paternità.
Il poeta
Per completare il ricordo di questo artista è opportuno fare un cenno alla sua produzione poetica anche se Gubinelli su questo argomento è stato sempre schivo: “Chiedo scusa se le chiamo poesie. Non so se Sor Ansermo sia un poeta: scrive in versi, questo sì, ma per essere poeti ci vuol altro”. Eppure le sue poesie vanno viste come un riflesso della sua vita interiore, dei suoi sentimenti, della sua religiosità, della sua innata propensione per la satira. Per prima cosa molte composizioni in dialetto riguardano la vita sociale e politica di San Severino Marche, oppure sono una manifestazione di affetto per le due città del cuore (Matelica e San Severino); altre costituiscono un legame tra fede e natura (la passione per la montagna, le chiese rupestri, le chiese e i cimiteri di campagna; altre ancora hanno un contenuto esistenziale riguardante il passare inesorabile del tempo, l’avvicinarsi della vecchiaia, il pensiero della morte, il dolore esistenziale, i dubbi, la fede e la speranza vissuta fino alla fine dei suoi giorni (Issu sta lì, Pecora matta, L’angonìa). Moltissime poesie sono dedicate alla Palestina, ai luoghi della “Terra santa” e ai personaggi del Vangelo: Maria, Pietro, Maddalena, Betlemme, Nazareth, Cana, il Sinai, Gerusalemme, il Cenacolo, il Santo Sepolcro. Spesso la forza della fede, la pulsione dei sentimenti, il peso di un’intima malinconia sfociano in versi di alto lirismo (Su me crescerà l’erba, E’ tempo di salpare, Pratu de casa mia, ‘Na fojia morta) fino alla sublime metafora de Le du’ rose: “’Na rosa spampanata / spanne pe’ l’aria l’urdimu profume; / ‘n po’ sconsolata / guarda le foje che ji sgappa via / a una a una…So’ io / quella rosa appassita…/ Quant’è corta la vita! / Se nasce… è già fenìta…/ E’ ‘na rota che gira / sempre a l’istessu versu…/ L’importante è che quanno / se smorciarà lu lume / abbia tu sparsu attornu / armancu quarche goccia de profume” (Poesie, Quaderni del Consiglio regionale delle Marche, Ancona, 2004).
Ci piace chiudere questo ricordo con il ritratto di Amedeo “disegnato” nel 1992 dallo scrittore e giornalista camerinese Angelo Antonio Bittarelli: “Visse un tempo a San Severino Marche un uomo pulito fino alla raffinatezza, di gusto e amante del bello come un umanista, acceso nella fantasia come un menestrello, come un musico o un cantastorie, raccolto come un eremita quando l’angelo della poesia gli toccava il cuore, commosso quando incontrava la gente in piazza o per le vie, nella chiesa o sui colli lucidati dal sogno e da ancestrali nostalgie”.