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“Lubo”, di Giorgio Diritti: un film dedicato alla vicenda degli Jenisch

In Europa, gli Jenisch sono la terza maggiore popolazione nomade, dopo Rom e Sinti. Molto diffusi tra Francia, Germania, Austria e Svizzera, durante gli anni del nazismo subirono anche loro l’internamento e lo sterminio nei campi di concentramento. Ma non furono perseguitati solo da Hitler: negli stessi anni, nella democratica Svizzera, il programma “Hilfswerk fur die Kinder der Landstrasse” realizzato dalla fondazione Pro Juventute ed appoggiato dalla Confederazione Elvetica, prevedeva il prelevamento forzato dei bambini jenisch dalle loro famiglie, per poi affidarli a famiglie svizzere o ad istituti. Spesso, i bambini affidati si ritrovavano in condizioni peggiori di quelle di partenza, e molte giovani venivano sterilizzate affinché non si riproducessero. L’obiettivo di questo progetto era quello di ripulire la Confederazione dai nomadi, considerati impuri, pericolosi e non integrabili nella società, un vero e proprio progetto di eugenetica, una pulizia etnica: le stesse intenzioni dei nazisti, ma in uno Stato democratico.

Dagli anni Sessanta, gli Jenisch si organizzarono e raccolsero molte testimonianze e, negli anni Settanta, la storia divenne ampiamente nota: negli anni Ottanta, la Svizzera riconobbe il crimine commesso e risarcì le vittime. Giorgio Diritti, prendendo come soggetto il libro “Il seminatore”, di Mario Cavatore, ha realizzato il film Lubo, incentrato proprio su questa travagliata vicenda: il film è stato presentato in concorso alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Lo jenisch Lubo Moser (Franz Rogowski) vive con la moglie ed i figli nel Cantone dei Grigioni: sono nomadi, vivono di spettacoli nelle città, vivono serenamente senza rubare né fare del male a nessuno. Nel 1939, Lubo viene chiamato alle armi: c’è il pericolo che Hitler invada la Svizzera e lui è idoneo al servizio militare. Durante la leva, i gendarmi vanno dalla moglie per portare via i bambini, per affidarli alla Pro Juventute affinché vengano “civilizzati” attraverso una “vera educazione”: lo Stato manda Lubo a fare il soldato, lo Stato gli porta via i bambini, tutto nello stesso momento. La moglie muore durante la colluttazione con la polizia e Lubo decide di disertare per andare alla ricerca dei suoi figli: comincia così a viaggiare per tutta la Svizzera, sperando di ritrovare i suoi bambini. Per sopravvivere, lo jenisch passerà la sua intera esistenza a trasformarsi, la mutazione sarà il suo modo di adattarsi alla realtà per inseguire affannosamente i propri obiettivi. Il tema della metamorfosi è centrale, sin dall’apertura del film, quando il regista ci mostra lo spettacolo dove Lubo è prima mascherato da orso per poi mutare travestito da donna. Come nella esibizione, Lubo sarà costretto ad indossare molti abiti lungo la sua vita: artista di strada, soldato, assassino, commerciante di merci preziose, seduttore di donne (la sua vendetta verso chi voleva sterminare la sua razza), uomo perbene, galeotto; ogni veste è un momento della sua esistenza, un ostacolo che deve superare per cercare la serenità perduta. E purtroppo l’obiettivo di Lubo Moser è impossibile: le cupe scene negli istituti infantili e negli archivi della Pro Juventute rinforzano la desolazione del suo destino; Lubo rappresenta i molti jenisch che, in vita, non hanno ottenuto la giustizia che meritavano.

Lubo è un lungometraggio drammatico e forte, ben costruito e narrato, preciso e dettagliato, un’efficace opera di denuncia cinematograficamente valida. La regia di Diritti è solida, lirica e al tempo stesso concreta, ed è capace di catturare l’attenzione fino alla fine: Lubo è un film che, attraverso una cruda storia del passato, ci ricorda come qualsiasi Stato, democratico e non, possa perpetrare le più ignobili ingiustizie ed avvallare i peggiori crimini, e per questo non bisogna mai abbassare la guardia.

Silvio Gobbi

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