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Kafka a Teheran
Kafka a Teheran

Ali Asgari e Alireza Khatami dirigono “Kafka a Teheran”

Un anno fa, la giovane Mahsa Amini veniva uccisa dalla polizia morale e religiosa iraniana perché aveva indossato male l’hijab, il velo: sono seguite forti ondate di protesta e violente repressioni da parte del teocratico regime sciita iraniano. Dopo un anno, un’altra ragazza, la sedicenne Armita Garawand, è stata ridotta in fin di vita dalla stessa polizia perché non indossava il velo. Il regime iraniano agisce così, controllando capillarmente ogni aspetto della vita dei suoi cittadini e decidendo arbitrariamente del loro destino. In questo contesto difficile, perdurante ormai dal 1979, dalla presa di potere dell’ayatollah Khomeyni, la dissidenza non si è mai arenata e nemmeno il cinema, il quale ha cercato, tra le pieghe del regime, di sfidare la rigida censura della repubblica islamica. Uno dei registi più vessati dal regime, Jafar Panahi, è stato più volte arrestato e gli hanno proibito di girare film, ma ha continuato a farlo di nascosto (ricordiamo Taxi Teheran, completamente girato in clandestinità). Lo stesso hanno fatto di recente due registi, Ali Asgari e Alireza Khatami, con Kafka a Teheran: un film schietto e duro sulla assurda vita quotidiana in Iran, girato senza attendere il permesso della censura. Kafka a Teheran, il cui titolo originale è “Versetti terrestri” in onore alla poetessa ed attivista Forough Farrokhzad (1934-1967), è composto da nove episodi, ognuno prende il nome del protagonista (David, Selena, Aram, Sadaf, Faezeh Farbod, Siamak, Ali e Mehri) e racconta le peripezie della gente comune alle prese con le insensate regole del regime.

Nella quotidianità iraniana ci si può scontrare con i potenti ed i burocrati per ogni cosa: dal nome da dare al figlio appena nato a come ci si veste a scuola, dalle assurde domande sul Corano durante un colloquio di lavoro al controllo inquisitorio dei tatuaggi durante il rinnovo della patente e molto altro ancora. I registi spiattellano in faccia al pubblico la realtà così com’è: episodi brevi e taglienti che spiazzano lo spettatore per l’assurdità, e la concretezza, di quelle vicende. Vediamo sempre e soltanto il/la protagonista dell’episodio, una camera fissa in un unico piano sequenza statico: non ci viene mai mostrato il controcampo e così facendo, tramite questa scelta alienante, sentiamo ancora di più il peso del controllo, delle leggi insensate e della burocrazia che vessano le vite di quei cittadini. La scelta di non mostrare mai le figure di potere, ma di far sentire soltanto la loro voce, spersonalizza il potere rendendolo ancor più freddo, distaccato, spietato ed incapace di empatia nei confronti dei malcapitati protagonisti. Il lungometraggio è stato presentato alla sezione “Un Certain Regard” del Festival di Cannes 2023 e, successivamente, le autorità iraniane hanno ritirato il passaporto ad Ali Asgari e vietato di girare film fino a nuovo ordine. La forza di Kafka a Teheran consiste nella fusione della verità delle vicende trattate (storie vere raccolte dagli autori e messe sotto forma di film) con una regia così radicalmente statica, capace di rafforzare il dramma della storia e di rappresentare efficacemente il senso di impotenza dei protagonisti. L’opera è una netta condanna nei confronti di un regime illiberale, teocratico, antidemocratico, un regime statico e ormai anacronistico, come gli autori ci fanno intuire attraverso le loro storie ed una sequenza in particolare: per i registi, il miglior modo per continuare a fiaccare il regime è quello di esibirlo a tutti così com’è, senza filtri, per farlo letteralmente tremare e magari, prima o poi, crollare.

Silvio Gobbi