C’è un regista italiano scomparso da molti anni che, nella sua breve carriera, ha diretto importanti lungometraggi: stiamo parlando di Antonio Pietrangeli (1919-1968). La sua filmografia, capace di spaziare tra dramma e commedia, si distingue anche per i ritratti femminili presenti al suo interno: lavori di qualità unica nel panorama italiano degli anni Sessanta. Ricordiamo in merito Adua e le compagne (1960): le vicissitudini, le difficoltà del reinserimento sociale di quattro ex prostitute che, dopo la chiusura delle case di tolleranza a seguito della legge Merlin, decidono di aprire una trattoria a Roma. Indimenticabile poi la vicenda di Dora in La parmigiana (1963), una ragazza che incontra, lungo la sua vita, un uomo peggiore dell’altro. Ma concentriamoci sul più maturo dei lavori di Pietrangeli, Io la conoscevo bene, del 1965.
Protagonista è Adriana (una giovanissima Stefania Sandrelli), ragazza della provincia di Pistoia che decide di trasferirsi a Roma per entrare nel mondo del cinema. Fa ogni lavoro per mantenersi: la parrucchiera, la mascherina al cinema, partecipa alle sfilate, di tutto, pur di vivere e farsi notare dal famigerato mondo della Settima Arte, dove la spietatezza è la regola. Si affida a personaggi sgangherati e furbetti, riceve le raccomandazioni sbagliate, e gli uomini se ne approfittano per la sua bellezza e bontà. Dopo una serie di umiliazioni, prende una drastica decisione.
In questa opera, Pietrangeli dà il meglio di sé (per completezza, ricordiamo che alla sceneggiatura, oltre al regista, ci sono Ettore Scola e Ruggero Maccari). Non si conforma ad un cinema standard dallo sviluppo lineare, scegliendo di frammentare la storia di Adriana, attraverso episodi non legati tra loro, capaci di darci il ritratto dinamico di una giovane sognatrice, ambiziosa, ma non famelica. Una ragazza che vive la giornata, desiderosa di affermarsi, ma senza retorica: semplicemente è innamorata del cinema, ma non riesce a sfondare. Negli anni del Boom economico, in quella Italia dove tutto è bello, in pieno sviluppo, dove tutti possono finalmente realizzarsi, ci sono anche queste storie: quelle dei nuovi ultimi, coloro che si impegnano al massimo, ma alla fine il peggio prende il sopravvento (con buona pace del semplicistico “volere è potere”). In quegli anni, qualcuno scorge le contraddizioni di quella euforia: ricordiamo gli scritti di Pasolini, il fondo amaro de Il sorpasso (Dino Risi, 1962), le opere letterarie come La vita agra di Luciano Bianciardi (Carlo Lizzani girò il film omonimo nel 1964) e Memoriale di Paolo Volponi.
Di meno sono gli autori/registi interessati alla condizione femminile: Pietrangeli non è uno di loro, perché in questo decennio rumoroso, la donna emerge sempre di più, perché è alla ricerca dell’emancipazione, della giustizia, per porre fine alle disparità economiche e sociali rispetto all’uomo. Il regista percepisce questa realtà e la racconta a modo suo, attraverso un’arte mai moralista: Io la conoscevo bene narra la vita di Adriana senza giudicarla, rappresentando con naturalezza i suoi passi falsi e le angherie che subisce. Non una bambolina, non una santa, non una rivoluzionaria né una decadente: è una semplice ragazza che vuole abbandonare la provincia rurale di sua provenienza per affermarsi nel mondo dello spettacolo. Con una regia fresca, fortemente vicina allo stile dell’allora contemporanea Nouvelle Vague (notiamo delle assonanze con Vivre sa vie, di Jean-Luc Godard, 1962), Pietrangeli ritrae una ragazza conosciuta da tutti, ma da nessuno veramente apprezzata né amata. Tutti gli episodi raccontano la solitudine di Adriana, la sua impossibilità di diventare ciò che desidera e l’incapacità di costruire un vero legame affettivo. Una figura che sintetizza la condizione femminile senza banalità, con delicatezza e decisione: un ritratto individuale che si fa discorso generale, ampio, capace di spaziare dalla protagonista al mondo che ha intorno, contro il quale la donna può ancora fare ben poco. «Ci sono due modi di sentire la solitudine: sentirsi soli al mondo o avvertire la solitudine del mondo», così ha scritto Emil M. Cioran in Al culmine della disperazione. Adriana fa di tutto per non pensare alla sua condizione, ma purtroppo non riesce ad evadere da queste due solitudini: la solitudine individuale, nella grande Roma, si fonde con l’incapacità del mondo e della vita di splendere. E questa ombra, giorno dopo giorno, arriva ad oscurare la luce della ragazza e le sue ambizioni: l’essere donna non l’aiuta nel suo cammino e grazie al lavoro di Antonio Pietrangeli, regista dallo sguardo moderno, possiamo riflettere su questa storia ancora attuale, su tutte quelle realtà simili che, ancora oggi, purtroppo esistono.
Silvio Gobbi