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Home | Cultura | Recensione: “Il mostro di St. Pauli”, un film di Fatih Akın
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Il mostro di St. Pauli
Il mostro di St. Pauli

Recensione: “Il mostro di St. Pauli”, un film di Fatih Akın

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 820 Visite

Con le sale cinematografiche ancora chiuse, bisogna sempre di più attrezzarsi e cercare sulle piattaforme di streaming qualche lungometraggio interessante. Non è semplice, ma qualcosa si trova sempre: questa volta si tratta de Il mostro di St. Pauli (Der Goldene Handschuh), l’ultimo film del regista tedesco Fatih Akın. Un’opera del 2019, poco distribuita nelle sale italiane, ma, fortunatamente, si può noleggiare su Amazon Prime Video. Il lavoro in questione è ambientato in Germania, Amburgo per la precisione, nei primi anni Settanta. Nel quartiere di St. Pauli, vive Fritz Honka, un uomo fortemente deformato: schiena curva, naso storto ed occhio strabico. Honka beve continuamente: passa il tempo libero nel pub “Der Goldenen Handschuh” (in italiano, “il guanto d’oro/dorato”), una bettola popolata da derelitti come lui, e tante prostitute attempate che cercano di fare qualche soldo. Fritz nasconde un lato oscuro: è un violento killer, e cerca sempre di adescare queste signore per ucciderle brutalmente nel suo appartamento. Purtroppo, è una storia vera.

Fatih Akın è uno dei migliori registi viventi. Di origine turca, nato nel 1973, si fece notare sin da giovane: con La sposa turca (Gegen die Wand), vinse l’Orso d’oro a soli trentuno anni. Una storia accurata e densa, con dei protagonisti che fanno di tutto per abbandonare le ferree tradizioni, per fuggire dal peso delle famiglie patriarcali turche e diventare degli individui liberi, in un cammino distruttivo e vitale al tempo stesso. L’incontro/scontro tra aspirazioni individuali e culture sovrastanti è sempre al centro delle sue opere: tanto nei lavori più drammatici, come nel film appena citato, o in Oltre la notte, Ai confini del Paradiso, quanto nelle commedie, come Soul Kitchen. Akın dimostra sempre una grande versatilità nel viaggiare tra i generi, narrando storie mai banali che catturano dal principio alla fine.

Con Il mostro di St. Pauli fa un passo in avanti, dedicandosi brillantemente ad una vicenda cruda, dura, d’orrore in certi momenti. Non è un film per chi è facilmente impressionabile. La brutalità è viva, carnale, una violenza mortifera, come quella subita dalle vittime di Honka: l’inquietudine pervade ogni frammento della pellicola, la percepiamo anche quando Fritz beve una birra. Conosciamo poco della vita del protagonista, sappiamo che ha molti fratelli e che il padre è stato internato in un campo di concentramento perché comunista. La sua vera famiglia è la fauna che popola il pub dove trascorre la sua vita, l’unico luogo dove Honka intesse dei rapporti e affoga nell’alcol: un posto losco, lurido, perduto, come il nostro protagonista. Questi reietti che ricordano le tele di Otto Dix, di Grosz, le figure dei film di Fassbinder (senza, però, alcuna tenerezza residua), condividono con Fritz la sociopatia, l’incapacità di essere integrati nella loro stessa Germania: questa volta, sono gli autoctoni stessi a non far parte della loro nazione, non gli immigrati. Questa Amburgo degli anni Settanta, fa da sfondo ad un fatto di cronaca nera capace di andare al di là del tempo, una storia di pura violenza universale: Fritz è l’emblema di un mostro senza pietà che può annidarsi ovunque, in ogni momento storico (passato, presente e futuro). Il mostro di St. Pauli è un’opera sulla degenerazione, sull’abbandono, sulla perdita di umanità che si trasforma in pura bestialità: Honka è una deviazione, uno dei tanti fallimenti delle belle intenzioni della Germania Ovest, un soggetto senza prospettive, totalmente compromesso, impossibile da recuperare. Prima, vittima di qualche intuibile trauma, poi, artefice di una ingiustificabile violenza che non conosce tempo né cura: un vero film sulla assenza di speranze, netto come la crudeltà del killer nei confronti delle sue vittime.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2021-01-30
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