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House of Gucci
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La recensione del film “House of Gucci” di Ridley Scott

A Milano, verso la fine degli anni Settanta, Patrizia Reggiani conosce il giovane Maurizio Gucci, membro della famosa famiglia del mondo della moda. Tra i due c’è una forte passione e, nonostante il parere contrario di Rodolfo, il padre di Maurizio, i due si sposano. Da lì, inizia la scalata di Patrizia nella famiglia Gucci: la donna diverrà un fulcro fondamentale nelle dinamiche dell’azienda-famiglia, condizionando il volere di Maurizio a seconda dei propri disegni per accrescere il potere del marchio Gucci. Ma questo gioco di equilibri tra affari e sentimenti arriverà a compromettere il rapporto tra i due sposi, fino alla separazione: la perdita del potere e il distacco dal marito porteranno Patrizia all’esasperazione, e arriverà ad organizzare l’omicidio di Maurizio.

House of Gucci, di Ridley Scott, è un’opera ambiziosa e rischiosa, ispirata a fatti realmente accaduti e al libro “House of Gucci. Una storia vera di moda, avidità, crimine” di Sara Gay Forden: un thriller ritmato sulla corruzione e la bramosia di potenza, con bravi interpreti, dove la realtà viene rimodellata dai toni romanzati. Scott non cerca la fedele narrazione della verità, ma punta, volutamente, agli eccessi caratteriali dei personaggi (con una recitazione appositamente forzata), a mettere al centro del lungometraggio il tema della sfrenata scalata di una donna ambiziosa e senza scrupoli; la sincerità dell’amore di Patrizia verso Maurizio rimane difficile da inquadrare, ma risulta evidente l’amore della donna nei confronti del potere.

L’istintiva, ma acuta, Patrizia (Lady Gaga) e il calmo Maurizio (Adam Driver), sono un miscuglio di luci e ombre, il cui rapporto si deteriora, nel tempo, in maniera irreparabile: non esiste amore, ma solo interesse; questo senso di logorio è presente sin dall’inizio, e l’oscurità è destinata ad avere la meglio. L’autore decide di non indagare ulteriormente nel profondo della psiche dei protagonisti, preferisce realizzare un prodotto dinamico, di ottimo intrattenimento, capace di narrare una universale vicenda di avidità e sporcizia. Non un’opera per analizzare la storia, ma un lavoro che parte da un fatto di cronaca nera per trattare temi generali, come la lotta per l’autorità, l’ossessione, l’autodistruzione, senza discendere in ulteriori approfondimenti individuali e collettivi. Il regista mira al piacere del racconto, all’interesse nei confronti delle immediate azioni dei personaggi, alla pancia, alle sensazioni impulsive, come quelle che regolano l’esistenza dei protagonisti, i quali, accecati dalla rincorsa al potere, alla fine finiscono come il Major Tom di David Bowie: toccano il fondo, il punto più basso delle loro vite («Hitting an all-time low», “Ashes to Ashes”).

Silvio Gobbi

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