A Boston, Martha Weiss convive con il compagno, Sean Carson. La donna è incinta ed è prossima al parto: i due innamorati non vedono l’ora che arrivi la loro bambina. Entrambi decidono per il parto in casa, con il supporto di un’ostetrica. Arriva la fatidica sera: si rompono le acque ed il travaglio entra nel pieno del suo ritmo. Purtroppo, non può venire l’ostetrica che ha seguito Martha lungo la gestazione, c’è una sostituta: ci si attrezza per far nascere la bambina, tutto sembra andare bene, ma, disgraziatamente, la bambina muore pochi minuti dopo la nascita. Il lutto sconvolge le vite di Martha e Sean, i due si distanziano sempre di più: Martha si isola in un dolore sordo, cercando di evitare le persone e l’assillante madre, Sean elabora la morte in maniera più nevrotica. Quell’inaspettato lutto crea una irreparabile crepa tra i due giovani, ed il muro tra di loro diventa insormontabile.
Pieces of a Woman è il nuovo film diretto dal regista ungherese Kornél Mundruczó. La sceneggiatura è scritta dalla moglie, Kata Wéber, ed è in parte ispirata ad una esperienza molto simile vissuta dai due in passato. L’opera è stata presentata alla scorsa 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ed è uscita il 7 gennaio su Netflix. Un dramma che vuole rappresentare la forza devastante di questi lutti inaspettati e sconvolgenti, dalle conseguenze imprevedibili, capaci di trasformare le persone in modi inimmaginabili. Interessante è la rappresentazione della protagonista Martha e del suo sordo, ma profondo e indescrivibile dolore: l’interpretazione impersonata da Vanessa Kirby è ragguardevole, ed infatti si è guadagnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile (una nota di merito deve andare anche a Ellen Burstyn, nel ruolo della caparbia madre, Elizabeth).
Pieces of a Woman è un film dal tema noto (la morte di un figlio e le conseguenze nel nucleo familiare), ma l’intento è quello di rappresentare questo dramma nella maniera più intima e meno eclatante possibile: pause, silenzi, primi piani, dettagli, tutto è sommesso e mai esasperato (se non in certi funzionali frangenti). Una regia non concitata, ma graduale, capace di raffigurare il lutto che, a mano a mano, pesa sempre di più sulle vite dei protagonisti. Tecnicamente pregevole il piano sequenza del parto, quei lunghi minuti in cui la macchina da presa ci fa vedere, senza mai uno stacco, lo sviluppo degli eventi dal travaglio della giovane alla morte della neonata. Perché, nella realtà, tutto accade senza una pausa: si passa dalla gioia al dolore senza che ci sia uno stacco netto, e non ci puoi fare niente. Il percorso di Martha ci ricorda, ancora una volta, quanto la vita sia fondamentalmente legata alla morte, quanto il dolore sia necessario per riconoscere la gioia, senza l’uno non c’è l’altra. La prematura dipartita della neonata è quel seme che, sorprendentemente, dopo mesi di buio, si trasforma in una nuova luce per la giovane donna, una nuova vita: fiorisce e cresce, come i semi di mela che Martha tanto ama e coltiva.
Silvio Gobbi