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Il traditore
Il traditore

La recensione: “Il traditore”, di Marco Bellocchio

Nel 1980, Tommaso “Masino” Buscetta vive in Brasile. È un affiliato di Cosa nostra, strettamente legato al boss Pippo Calò (amici sin dalla gioventù) e conosce bene tutti i membri della Cupola: il più grande coacervo di rifiuti umani. Masino si definisce un “soldato semplice”, non un boss, perché ha sempre preferito eseguire gli ordini e vivere una bella vita che comandare. Nel mentre, in Italia, quello del «cumannari è megghiu ca futtiri», Totò Riina, il futuro “Capo dei capi”, fa uccidere tutti gli avversari interni alla Cupola, per ottenere il controllo totale della cosca. In questo sterminio, non solo vengono ammazzati i mafiosi rivali, ma anche i loro parenti: ciò accade ai fratelli ed ai figli di Buscetta (con la complicità del fu amico Pippo Calò). Intanto, in Brasile, Masino viene arrestato per traffico di stupefacenti ed è estradato in Italia. Avvelenato per le azioni di Riina, una volta giunto nelle patrie galere, decide di collaborare con il giudice Giovanni Falcone, rivelandogli tutti i dettagli di Cosa nostra: dalla struttura alle azioni di cui è a conoscenza, dalle millantante nobili origini (prontamente contestate da Falcone) al recente degrado per via del traffico di droga. Tutto questo spifferare fa di Buscetta Il traditore agli occhi dei malavitosi. Ma secondo Masino sono gli altri ad essere i traditori, perché lui è rimasto fedele a Cosa nostra delle origini, e non ha tradito gli (opinabili) ideali d’onore che la Cupola aveva in passato. Dopo un periodo cinematograficamente più debole, il regista con i pugni in tasca, Marco Bellocchio, torna alla carica con questa trasposizione filmica degli ultimi venti anni di vita di Tommaso Buscetta. Una pellicola che ha una lontana eco di Buongiorno, notte, ma dove la dimensione onirica e poetica è fortemente ridimensionata ai fini della narrazione dei fatti. I sogni mortiferi di Masino presenti nella vicenda, questi spunti onirici, fortunatamente non fanno scadere Bellocchio nella psicoanalisi del protagonista: per il regista rimane centrale la funzione sociale che ha avuto Buscetta, non tanto la sua introspezione (la sua testimonianza ha fatto condannare più di trecento persone ed è questo ciò che conta maggiormente per Bellocchio). Un pacchetto di sigarette vuoto, la forte voglia di fumare, ed ecco che Falcone regala la sua confezione a Buscetta. Masino accetta, «ma solo perché era già aperto»: da uomo d’onore, non avrebbe mai accettato un pacchetto nuovo, non ancora scartato. E così, accendendo una sigaretta, comincia l’avvicinamento, quel dialogo che ha cambiato il corso della giustizia italiana. Il campo-controcampo si fa più simmetrico, arrivando ad inquadrare i due con la stessa proporzione, suggellando la raggiunta intesa: da quel momento, il malavitoso scioglie del tutto la lingua, confessandosi al magistrato. Così facendo, Bellocchio riesce ancora ad insegnarci come il giusto utilizzo della tecnica cinematografica possa dare ulteriore forza al contenuto di una vicenda già densa, fitta come il Maxiprocesso di Palermo e quello ad Andreotti (dove luci e ombre, prove certe ed ipotesi difficilmente verificabili, si confondono). La forte interpretazione di Pierfrancesco Favino nel ruolo del protagonista (una delle sue migliori prove), non rende il mafioso un personaggio romantico con cui identificarsi: bugiardo e sincero al tempo stesso, un uomo con i suoi enormi peccati, ma pienamente convinto di essere nel giusto, di essere l’unico rimasto con un briciolo di onore. Con Il traditore, Bellocchio sbatte di nuovo il mostro in prima pagina, facendoci notare che i mostri non sono soltanto i mafiosi: mostruosi sono anche tutti coloro che difendono la mafia, come i manifestanti che invocano Cosa nostra come Santa protettrice, garante di sicurezza e lavoro, o quelli che stappano le bottiglie per la strage di Capaci. In queste scene, in queste immagini tanto brevi quanto folgoranti, l’autore ci fa vedere (senza eccessiva retorica) come questa gente comune, che fa da sottofondo alla delinquenza, possa essere pericolosa tanto quanto i mafiosi stessi: questi «utili idioti» sono l’eterno fertilizzante delle cosche tutte. Ora, a ottant’anni, il regista di Bobbio ha definitivamente accantonato i sogni: non è più la Cina ad esser vicina, ma la mafia, fortemente radicata, ed Il traditore è quel potente, e necessario, schiaffo di realtà capace di farci ricordare come siamo messi.

Silvio Gobbi

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