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La recensione: “Roma”, meritato Leone d’oro a Cuarón

Cleo è una giovane tata al servizio di una benestante famiglia di Città del Messico. La sua routine è scandita dalle faccende domestiche: custodisce la casa ed accudisce i bambini dei padroni con amore sincero. Tutti la amano veramente: questa famiglia borghese, con i suoi pregi e difetti, ricambia l’affetto. Un giorno, la giovane domestica scopre di essere incinta, ed il suo ragazzo sparisce. Fortunatamente, la padrona di casa è comprensiva ed aiuta la ragazza a portare avanti la faticosa gravidanza. Siamo tra il 1970 ed il 1971, anni difficili per la nazione centramericana, con un governo dalle politiche contraddittorie, tali da generare forti tensioni sociali: scontri tra polizia e studenti, rivolte dei contadini per gli espropri terrieri. Questi tumulti sono presenti, ma fanno da sfondo della storia: il nocciolo sta nei drammatici eventi personali che travolgono la vita di Cleo e dell’intera famiglia. Il dramma è nella quotidianità, senza spettacolarizzazione: il bene ed il male non sono rappresentati con sensazionalismo, ma silenziati e mitigati; arrivano e passano come ogni altro evento, lasciando sedimenti o ripulendo le superfici come fossero acqua corrente (elemento fortemente presente nella pellicola). Con piani sequenza lunghi e descrittivi (alternati a dettagli), ed un bianco e nero che pervade l’intera ambientazione (creando un grigio ricco di profondità e sfumature), la vicenda di Cleo prende forma nella sua naturalità e verità. Non ci sono celebrazioni, né condanne in Roma (quartiere della capitale messicana) di Alfonso Cuarón (Leone d’oro alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2018). Il regista realizza un’opera la cui mitezza non cede alla debolezza: l’indugiare della cinepresa non annoia, ma costruisce e descrive la vicenda nei più intimi particolari. Come nei migliori film d’autore, in questo lungometraggio c’è di tutto: dalla storia privata al contesto sociale, senza portare al parossismo né i drammi psicologici né la critica politica. Con posatezza e senza noia, lo sguardo dell’autore dona complessità e struttura al corpo alla vicenda, grazie anche alla ricca simbologia presente: gli escrementi del cane e l’ingombrante auto del padrone per indicare la falsità del capofamiglia; il terremoto all’ospedale ed il bicchiere rotto durante l’ultimo dell’anno per suggerire i futuri problemi di gestazione della ragazza (e molte altre figure che arricchiscono la trama senza appesantirla). Cuarón firma il suo migliore lavoro, pienamente originale, trasportandoci in una storia vicina ai tempi della sua infanzia, capace di coinvolgerci senza estraniarci da noi stessi: condividiamo la passione di Cleo, ma non ci perdiamo in essa (un riuscito equilibrio tra emozione ed intelletto). Dopo aver spaziato tra i generi, dirigendo lavori come, ad esempio, Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), I figli degli uomini (2006) e Gravity (2013), il regista messicano è arrivato ora ad esprimere pienamente le sue doti autoriali, guadagnandosi un posto tra i maestri. Realizzando un soggetto originale e dirigendolo altrettanto pregevolmente, egli partorisce una storia senza tempo, dalla passione ponderata ma non fredda, capace di creare un legame vitale tra il passato ed il presente e tra il cinema di ieri e quello di oggi.

Silvio Gobbi

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