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The Life of Chuck
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“The Life of Chuck”, il film del regista Mike Flanagan

Mike Flanagan torna al cinema trattando di nuovo un soggetto di Stephen King: dopo Doctor Sleep (2019), ora il regista statunitense dirige The Life of Chuck, un racconto tratto dalla raccolta di King “Se scorre il sangue”. In quest’ultimo film, Flanagan racconta una vicenda sul senso dell’esistenza, ricca di luce e di ombre: è un film che descrive il concetto di vita nel pieno di ogni sua sfumatura, tanto negativa quanto positiva, ricca di autenticità e di contrasti.

Chuck (Tom Hiddleston) è un uomo di trentanove anni che sta morendo per un tumore al cervello. La sua vicenda viene raccontata in tre atti e ripercorsa a ritroso, dalla morte alla vita, dagli ultimi pensieri negli stadi finali della malattia fino all’adolescenza, mostrando i traumi del tempo e le gioie della vita, la bellezza dell’esistenza e la sua irriducibile ombra.

È difficile approcciarsi, cinematograficamente parlando, ad un autore acuto, ricco di sfumature e profondo come Stephen King: mettere su pellicola la forza della sua scrittura è arduo, ed infatti, spesso, le trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi non rendono giustizia. Mike Flanagan invece riesce a tradurre efficacemente in immagini la ricchezza dell’universo letterario di King, riuscendo a traslare nel film la potenza della figura di Chuck e del suo tanto ordinario quanto straordinario mondo. La regia sa mantenere il giusto ritmo, il montaggio gioca sui salti temporali senza confondere, e la fotografia sa essere calda senza risultare forzata: la luce riesce ad essere accogliente ed inquietante a seconda della situazione (in certi momenti, The Life of Chuck ricorda un’altra famosa trasposizione di King, Stand by me di Rob Reiner).

Il viaggio di Chuck è il viaggio di tutti noi, perché nessuna vita è mai lunga abbastanza, ed il segreto per viverla bene è viverla pienamente nella sua finitezza, accogliendo tutte le sue luci e le sue ombre. Allargare la propria esistenza significa allargare la propria vita, e per farlo bisogna entrare in contatto con gli altri e assimilare ogni incontro ed ogni esperienza, diventando così moltitudine (non a caso, viene citata “Song to Myself”, di Walt Whitman: «Do I contradict myself? Very well then I contradict myself (I am large, I contain multitudes)»). Conoscere la morte può dare senso alla vita: se si comprende la sua finitezza, ci si può muovere per viverla nella maniera più ricca e autentica possibile (come diceva il filosofo tedesco Martin Heidegger con il suo “essere-per-la-morte”). Da adolescente, Chuck apprende proprio questo: conosce la morte, conosce la fine della vita, e comprende quindi la potenziale grandezza della vita stessa, la quale può essere raggiunta solo vivendola pienamente, apprezzando ogni suo piccolo momento ed ogni suo incontro (anche il più fugace). Ed è proprio perché ha compreso e scelto (due aspetti cruciali nell’opera) questo approccio alla vita che l’uomo è riuscito a vivere «39 grandiosi anni».

Silvio Gobbi