Il potere della celebrità sulle masse, il culto che si crea intorno ad una figura di spicco, le persone disposte a tutto pur di compiacere la star adorata: questi sono gli aspetti centrali di Opus – Venera la tua stella, scritto e diretto da Mark Anthony Green (il suo esordio alla regia). L’idolatria nei confronti dei vip è da sempre presente, ma oggi è esasperata più che mai dalla realtà multimediale in cui viviamo, pompata dai social e dal loro connaturato voyeurismo verso ogni aspetto della vita quotidiana delle star.
In Opus abbiamo un cantante, Alfred Moretti (John Malkovich), un bizzarro personaggio dal grande talento, ritirato da decine di anni dalle scene: un giorno, decide di riapparire e di invitare una selezionatissima squadra di persone del mondo del giornalismo dello spettacolo, della televisione e dei social, alla presentazione in anteprima del suo nuovo album. Tra questi “eletti”, c’è la giovane Ariel Ecton (Ayo Edebiri, famosa per aver interpretato Sydney in The Bear), una cronista di spettacolo sfruttata dalla sua redazione, ed infatti Ariel è un pesce fuor d’acqua rispetto agli altri importanti invitati. La ragazza è scaltra e nota, più degli altri, la stranezza della situazione: le assurde manie di Moretti che tutti (compresi i giornalisti invitati) placidamente assecondano, il luogo in cui sono stati invitati (un enorme ranch in mezzo al nulla, nello Utah), le centinaia di persone che vivono nella tenuta venerando il culto di Moretti (una vera setta, dal nome “livellisti”). Ariel osserverà gli inquietanti eventi di quel luogo, come la scomparsa delle persone partite con lei per questo tour speciale, e scoprirà sempre di più la pericolosità della situazione. È concreta e intelligente, per questo è la più “immune” al fascino di Moretti, la star capace di schiavizzare tutti coloro che vengono da lui considerati: Ariel è destinata ad essere la tipica “final girl” della vicenda, arrivando a scoperchiare un disegno più grande di Moretti stesso.
La regia di Opus è dinamica e ritmata, mantiene sempre alta la tensione: è un thriller dalle venature horror, ricco di aspetti psicologici e di critica sociale allo star system (chiaramente Green vuole farci notare la pericolosità dello strapotere delle star, una forza, quasi religiosa, capace di annientare il pensiero della massa). Nel realizzare questo lungometraggio, Green rievoca lo stile di Jordan Peele (Scappa – Get Out) e di altri film recenti come Midsommar (Ari Aster) e The Menu (Mark Mylod). Il taglio cinematografico è molto pulito, anche nelle scene più disturbanti e, se in certi punti lo sviluppo risulta prevedibile, in altri momenti l’inventiva è ottima, come la scena in cui Moretti canta la sua nuova canzone e tratta come “pupazzi” gli ospiti invitati. Ancor più impressionante la parte in cui viene messa in scena l’inquietante e macabro spettacolo di marionette con dei ratti sfigurati: i ratti impersonano (non a caso) dei giornalisti che fanno domande moleste a Billie Holiday (la famosa cantante blues dalla vita tragica). In conclusione, Opus, attraverso dramma, critica, black humor e satira, mostra le pericolose, e concrete, perversioni che il mondo dello spettacolo può raggiungere e come può arrivare ad annientare qualsiasi individualità, senza riservare sconti al mondo dell’informazione, abitato spesso da furbi soggetti che celebrano o affossano lo star system a seconda della convenienza del momento (perché, spesso, anche i giornalisti vorrebbero essere le star che solitamente intervistano).
Silvio Gobbi