di Alberto Pellegrino
Giorgio Zampa non è stato solo un critico teatrale e un collaboratore di importanti registi, come abbiamo visto nel precedente articolo, ma anche il traduttore e commentatore di quattro importanti opere teatrali scritte tra Ottocento e Novecento.
L’istruttoria di Weiss arriva per la prima volta in Italia
Nel 1965 il drammaturgo tedesco Peter Weiss (1916-1982) scrive L’istruttoria. Oratorio in undici canti, dando forma teatrale alle testimonianze, alle dichiarazioni degli imputati, agli interventi dell’accusa e dei difensori pronunciati nell’aula del Tribunale di Francoforte sul Meno, dove tra il 1963 e il 1965 si è celebrato il processo contro i militari delle SS, i funzionari del Lager di Auschwitz, gli industriali che hanno sfruttato la “manodopera” ebraica. Si è trattato del primo procedimento penale intentato dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’Olocausto con un dibattimento processuale durato 183 giorni, nel corso del quale sono stati ascoltati 409 testimoni, di cui 248 scelti tra i 1.500 sopravvissuti al campo di sterminio. Il 19 agosto 1965 è stata emessa una sentenza che ha comminato sei condanne all’ergastolo, undici condanne dai 3 ai 14 anni di prigione e deciso tre assoluzioni.
Il titolo Die Ermittlung non significa solo “istruttoria” in senso giuridico, ma anche “indagine” o “accertamento della verità” e conferisce pertanto a questo oratorio civile la forza di un documento storico, perché il giudice, il difensore, il procuratore, i diciotto accusati e i nove testimoni anonimi (ognuno dei quali dà la propria voce a più testimoni) sono i personaggi reali, dai quali la drammaturgia non si discosta mai. Questo capolavoro del teatro civile, che è stato rappresentato in tutto il mondo ed è stato visto da milioni di persone, vuole offrire una riflessione collettiva sulla tragedia consumata nei campi di sterminio nazisti. Il linguaggio cupo, crudo e distaccato serve a rappresentare il terribile il viaggio dell’inferno del lager, dall’arrivo alla morte nelle camere a gas. Nonostante il tentativo degli imputati di rifugiarsi dietro l’alibi del dovere militare e dell’efficienza burocratica, dal processo emergono chiaramente le responsabilità del personale del lager che ha collaborato con spietata indifferenza e con fredda crudeltà all’annientamento di un impressionante numero di persone.
Giorgio Zampa, che già conosceva Peter Weiss per aver recensito alcune sue opere teatrali, nel 1966 traduce L’Istruttoria (Einaudi, 1967), un testo ancora sconosciuto in Italia che nella stagione 1966/67 viene messo in scena dal “Piccolo Teatro” di Milano con la regia e la scenografia di Virginio Puecher, le musiche di Luigi Nono. Nella nota introduttiva al testo Giorgio Zampa scrive: “In versi liberi, brevi e brevissimi, spesso d’una sillaba, la materia inaudita: accuse, testimonianze, difese tutte egualmente atroci, si dispone in modulazioni essenziali, convertendosi in una sostanza verbale apparentemente incolore, in realtà portata al calore bianco da un’altissima tensione interna. Le combinazioni ritrovate da Weiss restituiscono, con un’immediatezza a volte quasi insostenibile, tutti i possibili sensi di quello che la documentazione storica più completa può offrire: una volta tanto un testo di poesia integra, anzi approfondisce, dati della storia”. Questo oratorio ha “una forza di rivelazione, anzi di denuncia, stupefacente: reticenza, malafede, menzogna, viltà, cinismo, ottusità, sono caratteri dei despoti, dei boia, dei carcerieri di un tempo; la lezione che si ricava dal loro atteggiamento, certo favorito dell’indulgenza, quando non dall’appoggio attivo della società in cui oggi vivono, è forse più drammatico di quella derivante dall’evocazione del passato. Non sono parole, quando si dice che Auschwitz continua ancora dentro e intorno a noi”. Questa esperienza deve aver lasciato nello studioso un segno profondo, come dimostrano i pochi versi ritrovati tra le sue carte private: “Canto dei fanciulli ebrei. Di noi non si dirà che abbiamo vinto/Cantiamo al sole/una nostra armonia senza parole/come lungo le prode ora le viole/si aprono, e non sanno d’esser sole. / Dei padri che sappiamo? /Li ha bruciati/un inverno tremendo; non ne resta/che una traccia sotterra, in noi un ricordo/che affiora, in questi gridi, in un accordo/che ci lega a quest’erba, a queste zolle”.
Il “dramma sospeso” di Woyzech
Nella stagione 1970/71 il Teatro Stabile di Torino ha allestito uno spettacolo particolare, affidandone la realizzazione a un cast d’eccezione, formato dal regista Virginio Puecher, dallo scenografo Josef Svoboda, dal costumista Vittorio Rossi e dal compositore Vittorio Fellegara. Si tratta di Il dramma sospeso di Woyzech di George Buchner (“Quaderno n. 22”, Teatro Stabile Città di Torino, 1970), che costituisce una novità assoluta per le scene italiane. Per partecipare a questo avvenimento teatrale, viene chiamato Giorgio Zampa, al quale è affidata non solo la traduzione dei testi, ma la redazione drammaturgica del dramma lasciato incompiuto dall’autore a causa della sua prematura morte. Zampa ha preso in esame i “frammenti” della tragedia secondo le quattro versioni basate sui più moderni studi dei manoscritti ed è riuscito a ricomporre in modo organico un “dramma sospeso” cioè “non finito”, senza preoccuparsi di “ricostruire” il testo per la lettura e la rappresentazione.
Georg Büchner (1813-1837) ha iniziato a scrivere questa opera tra il 1836 e il 1837, lasciandola incompiuta sotto forma di frammenti e di appunti, che costituiscono l’unico materiale disponibile per una stesura il più possibile vicina alle intenzioni dell’autore, il quale sembra abbia tratto spunto da tre omicidi di donne realmente commessi da Johan Christina Woyzeck, Daniel Schmolling e John Diess. Dalle 27 scene, che si susseguono senza una divisione in atti, è possibile ricostruire in qualche modo la storia del soldato Franz Woyzeck, il quale vive con la compagna Marie e loro figlio, soffre di allucinazioni e, per guadagnare un po’ di denaro, accetta di fare da cavia per gli esperimenti di un medico. Nel frattempo Marie lo tradisce con un ufficiale e Woyzeck nutre dei sospetti che aumentano quando sorprende la compagna che in una taverna mentre balla con il suo rivale. La follia lo spinge ad attaccare l’ufficiale, ma una voce nella sua mente malata gli suggerisce di uccidere la donna (“pugnala a morte quella lupa impertinente”). Woyzeck appare sporco di sangue, ma non si saprà mai se sarà condannato a morte, oppure si ucciderà tormentato dai rimorsi.
Giorgio Zampa, nella dettagliata presentazione del dramma, ricostruisce la storia delle ricerche e dei tentativi fatti per dare una forma scenica al testo, sostenendo che spesso gli studiosi sono caduti nella “tentazione di completare l’opera interrotta, di compiere una affascinante operazione non solo di restauro ma di ridipintura”. Risulta invece difficile “parlare di un personaggio tanto concreto, vivo non come un fantasma letterario, ma come un dato fisico, corporeo”, mentre “la vicenda del vero Woyzeck, che oggi è quello bucheriano più che quello storico, è strettamente dipendente, addirittura condizionata dalla successione che filologi hanno dato e danno ai fogli su cui è iscritta”. Per Giorgio Zampa Woyzeck rimane pertanto un “dramma sospeso” proprio per la sua forma frammentaria: “Dopo un secolo di congetture, di arbitri commessi ai danni di un’idea che cercava la sua definizione attraverso materiali raccolti per saggiare varie direzioni, si rinunci ai tentativi di integrazione e di completamento, alle pretese di sostituirsi all’autore. Si corra, piuttosto, la meravigliosa avventura della ricerca potenzialmente illimitata, dei significati impliciti in ciascuna delle stesure rimaste, si individuino, sotto la superfice di passi che sembrano dettati per l’eternità, gli incroci che ne rendono, nel profondo, la sostanza mobile, mutevole, inafferrabile”.
La traduzione di un grande dramma storico-cavalleresco
Nel 1972 Giorgio Zampa ha tradotto per Adelphi Kathchen di Heilbronn ovvero la prova del fuoco di Heinrich von Kleist (1777-1811), un autore che ha attraversato come una meteora il primo Romanticismo tedesco, lasciando opere teatrali importanti come Pentesilea, Anfitrione, La brocca rotta e Il principe di Homburg. Molti però ritengono che la Kathchen di Heilbronn sia il migliore dramma storico-cavalleresco dell’Ottocento, dal quale traspare la nostalgia per un Medioevo mitologico pieno d’imprese cavalleresche, intrighi, magie, angeli protettori, donne avide e malvagie. Il dramma appare di una sconcertante modernità soprattutto per la presenza di Caterina di Heilbroonn, meravigliosa figura femminile che vive nei due mondi paralleli della realtà e del sogno. La fusione di questi due piani vuole simboleggiare l’integrità di una innocente contadina quindicenne che passa illesa attraverso le varie vicende reali e persino tra le fiamme del rogo per seguire il giovane e fatale Conte von Strahl, in mezzo a imprese di guerra e processi, per arrivare alle nozze con l’uomo amato, celebrate dall’Imperatore in persona che, con un spettacolare un colpo di teatro, si rivela essere il padre naturale della ragazza.
Nella puntuale introduzione critica Giorgio Zampa sostiene che “il centro di gravità, nella Kathchen, è la rivelazione dell’amore di un cuore intatto, la scoperta della primigenia del sentimento amoroso”, anche se questo sentimento è “mascherato da una chincaglieria clamorosa, frastornante, dissimulato dietro zuffe, battaglie, incendi, monasteri, cavalcate, cortei, Medioevo da feuilleton”. Malgrado i suoi limiti, l’opera rimane uno dei più grandi testi del teatro romantico: “Un dramma femminista, dove le donne imperano […] Soprattutto Kathchen che non è eletta, ma elettrice. Eletto per lei, voluto quindi da lei, alla fine ottenuto, è vom Strahl, tanto gagliardo e nerboruto quanto incerto, suggestionabile, inconsistente […] La Kathchen non è un dramma da tavolino: è stato fatto per essere visto: la definizione di Schauspiel, nel sottosuolo, lo conferma. Tanti quadri, e in questi molte immagini, numerosi personaggi, azioni portate avanti e troncate di colpo, abbandonate o riprese senza nesso apparente: nonostante il filo rosso con cui Kleist ha imbastito la sua tela, percepibile a una lettura attenta, il divertimento di chi assiste a questo spettacolo diabolicamente gastronomico non sarà mai, per fortuna, privo di una riparatrice inquietudine”.
Il sogno di August Strindberg
Il Teatro stabile di Torino, per la stagione 1969/70, chiama ancora Giorgio Zampa per affrontare la traduzione e l’analisi critica di un’opera di August Strindberg, un autore che lo studioso già conosce perché ha analizzato suoi testi importanti come Il Pellicano, Il padre, La signorina Giulia. Si tratta ora di affrontare Il Sogno, che non è stato mai rappresentato in Italia e che il drammaturgo svedese considera “il mio dramma prediletto, la creatura del mio maggiore dolore”, nel quale egli mescola vita reale e sogno in un gioco di combinazioni mentali, di gesti, di avvenimenti che si trasformano in una realtà teatrale. “I personaggi – dice Strindberg – si scindono, si raddoppiano, si sdoppiano, svaniscono, prendono coscienza, si sciolgono e si ricompongono. Una coscienza, tuttavia, sovrasta tutto, quella del sognatore: per essa non ci sono segreti, incongruenze, scrupoli, leggi. Egli non condanna, non assolve; riferisce: e poiché il sogno, il più delle volte, è doloroso e solo di rado lieto, una nota di malinconia e pietà verso quanto è vivente attraversa il vacillante racconto. Il sonno diventa spesso doloroso, ma quando il tormento arriva all’estremo, ecco il risveglio a conciliare il sofferente con la realtà. E la realtà, per penosa che sia, in quel momento costituisce pur sempre un sollievo, rispetto al sogno tormentoso”. Con un procedimento del tutto audace, l’autore crea una “una fanciulla divina” capace di peregrinare da un luogo all’altro, da una scena all’altra, senza un’apparente continuità logica, incontrando una serie di personaggi misteriosi, insoliti, simili a spettri, presenti in storie che insegneranno alla giovane che cosa è la sofferenza e l’ingiustizia, ma trasmettendole anche una forza dolce e terribile che lega insieme il sogno, la vita e la poesia.
Nella scheda di presentazione dello spettacolo, Giorgio Zampa scrive che questa opera “è forse il dramma che rivela Strindberg nella maniera più scoperta e completa. Confessione personale al declino della maturità, dove personaggi e luoghi reali si alternano a quelli vivi nell’opera: mistero laico percorso da una religione senza speranza […] Opera emblematica dell’art nouveau, nella quale confluiscono elementi figurativi, musicali, architettonici dell’epoca, originando una struttura di una complessità quasi mostruosa e insieme una partitura sorvegliatissima. […] Parlare di modernità del teatro di Strindberg è improprio, quasi restrittivo: in Dromspel il teatro di tutti i tempi ha trovato una delle sue formulazioni più ardite e più aperte, le sue possibilità di interpretazione e di suggestione sono infinite”. Nella prefazione-introduzione del testo, pubblicato da Adelphi nel 1994, Giorgio Zampa precisa ancora: “Il sogno occupa un posto eminente nella letteratura drammatica del nostro secolo per le sue qualità teatrali, per novità di linguaggio e libertà di costruzione. […] Abbandonarsi al flusso di queste scene vuol dire calarsi nella dimensione del sogno, vivere una realtà che con quella quotidiana ha in comune solo apparenze; significa riappropriarsi di aspetti della vita logorati dall’abitudine, dalla ripetizione; rilevare analogie invisibili, rapporti imprevedibili. Avere una più acuta intelligenza della vita attraverso il sogno, e interpretare il sogno attraverso il teatro”.