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The Northman
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La recensione del film “The Northman” di Robert Eggers

Nell’anno 895, in un regno della costa islandese, il re Aurvandill War-Raven viene ucciso dal fratello, Fjölnir. L’usurpatore si impadronisce del potere e prende la moglie del defunto re, la regina Gudrún: il giovanissimo principe Amleth, figlio di Aurvandill War-Raven e Gudrún, è costretto a fuggire per salvare la propria vita. Dopo aver passato anni lontano dalla sua terra, ripetendo, giorno per giorno, a sé «Ti vendicherò, padre. Ti salverò, madre. Ti ucciderò, Fjölnir», l’ormai adulto principe si imbarca, fingendosi schiavo, verso le terre di Fjölnir per poter compiere la sua vendetta e ottenere giustizia.

The Northman è il nuovo film di Robert Eggers, il terzo della sua produzione (esordì nel 2015 con The Witch e nel 2019 realizzò The Lighthouse). A differenza dei primi due film, horror dal basso budget caratterizzati da una forte tensione psicologica, The Northman è un costoso film storico-epico (più di 90 milioni di dollari), ambientato nel mondo norreno alto medievale, tramite il quale il regista racconta, senza edulcorazioni né sconti, la crudezza di quella realtà. Attraverso una regia precisa, dettagliata, ricca nelle ricostruzioni e nell’azione, con sequenze magistralmente dirette e impressionanti, Eggers risalta, non nasconde la brutalità e l’asprezza degli eventi, realizzando un’opera che sa distinguersi nel panorama del genere (grazie anche al fondamentale aiuto del poeta e scrittore islandese Sjón nella stesura della sceneggiatura). Un lavoro lungo, violento e autentico, dove storia e leggenda si fondono: il racconto narrato da Saxo Grammaticus, dal quale prese ispirazione Shakespeare per il suo Amleto, viene ricostruito attraverso una serrata ed importante presenza del mito in quel mondo, un’epoca così lontana da noi nel tempo e nelle credenze, ma così vicina a noi nelle nefandezze perpetrabili (le scene di guerra, di esecrabile crudeltà nei confronti dei civili, vecchi, donne e bambini senza distinzione, sono ferocemente attuali).

Amleth cresce nell’odio, nel rancore per ciò che gli è accaduto: la sua religione, i suoi miti e rituali (questi ultimi, raffigurati sin nei minimi dettagli) si mescolano alla sua sete di vendetta, la alimentano, rendendo il suo piano di lotta giustificato e funzionale alla struttura della realtà che lo circonda. Ma il mondo non è mai fisso, le “regole”, anche quelle scritte nel sangue, non è detto che aiutino a salvare la propria vita. La sete di vendetta del principe spodestato è fine a sé stessa e non conosce alcun futuro se non la totalizzante necessità di uccidere Fjölnir. Il granitico rancore autodistruttivo di Amleth si contrappone alla lungimiranza della sua compagna conosciuta in schiavitù, la schiava slava Olga: lei comprende la possibilità di cambiare il proprio destino lasciando il passato alle spalle. Lei incarna il futuro, la vita, Amleth invece è ancorato al suo passato e ai suoi modelli, fino alle più estreme conseguenze: con la fine della lotta si conclude la sua vicenda, termina un’epoca lontana da noi nel tempo e nei miti, ma gli aspetti più triviali e brutali di quel mondo ancora ci accompagnano. Senza più l’afflato divino che conduceva Amleth, tuttora cediamo ugualmente agli stessi istinti ferini: ancora oggi, ci sarebbero pochissime persone come Olga a scegliere la vita al posto della vendetta.

Silvio Gobbi

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