«Le guerre erano le maledizioni perenni, le guerre erano peggiori della tempesta», ha scritto Nuto Revelli nel testo Il popolo che manca, importante raccolta delle memorie e testimonianze del mondo contadino italiano. Oltre ai ricordi di povertà e miseria secolare, Revelli non poteva non riportare il flagello della guerra per il mondo rurale. Giovanissimo ufficiale, partì volontario, durante la Seconda guerra mondiale, verso il disastroso fronte russo. Con lui uomini, ragazzi di ogni estrazione sociale, tanti contadini, costretti a subire, coercitivamente, la sciagura della guerra. Obbligati a combattere, incoscienti di quello che avrebbero vissuto, in migliaia si ritrovarono in uno dei più duri fronti esistenti: vissero in prima persona la mutazione da esseri umani a «carne da cannone» (Il mondo dei vinti). Giornate interminabili, scontri devastanti, ritirate disastrose, fame e gelo: conoscevano il giorno della loro partenza, ma non potevano sapere se, come e quando, sarebbero ritornati a casa. Momenti di sospensione irreali e attimi di assoluta violenza si scambiano di continuo durante ogni battaglia: la pressione vissuta da Revelli e dai suoi soldati è la stessa in ogni conflitto.
Una tensione che si ripete in ogni guerra, vissuta anche dai protagonisti del film Torneranno i prati, di Ermanno Olmi (2014). Ambientato durante la Prima guerra mondiale (liberamente ispirato al racconto del 1921 di Federico De Roberto, “La paura”), nell’Altopiano di Asiago, il regista tratteggia, attraverso colori grigi e scuri, tali da ricordare vecchie pellicole e foto d’epoca, la lunga attesa, l’impossibilità di avanzare dei soldati dalle loro posizioni, intrappolati tra la neve ed il silenzio. Gli ufficiali sono sfiniti come i loro soldati: incapaci di parlare, di agire, di vedere oltre al buio, bloccati in un mondo dove ormai non c’è più differenza tra giorno e notte, tra morte e vita. Scrive il giovane tenente alla madre: «Sono qui da poco più di un’ora e mi pare di essere diventato di colpo un vecchio, al punto che i miei studi e persino i miei ideali qui hanno perso il loro significato come la mia giovinezza. Madre amatissima, ci sono giovani come me che muoiono ogni giorno e anche quelli che torneranno a casa si porteranno dentro la morte che hanno conosciuto e quel pensiero non li abbandonerà più. Si sentiranno dei sopravvissuti, condannati a morire due volte». Condannati a morire, fisicamente e intimamente, per mano del conflitto, incapaci di riagguantare la vita: praticamente per sempre rinchiusi in una cella, la gabbia della guerra.
Questa esistenziale e fisica “prigionia della guerra” è simile a quella che vivono i protagonisti di Underground, di Emir Kusturica (1995): ingannati da Marko, Petar “Il Nero” ed altri uomini e donne si ritrovano a vivere, durante la Seconda guerra mondiale, in un enorme sotterraneo per quasi vent’anni (quindi oltre la fine del conflitto), credendo di essere sempre in lotta contro i nazisti. Film dai tratti grotteschi, assurdi, capace di passare dalla risata al dramma più cupo in un batter d’occhio, l’opera Palma d’oro a Cannes è un affresco capace di dimostrare l’eternità della guerra, la sua perenne non-fine. La costrizione dei protagonisti nello scantinato, la loro fuga e lo scoppio, dopo non molti anni, della guerra balcanica, è il segno dell’immortalità dei conflitti, della loro incapacità di terminare del tutto. Come per i giovani dell’Asiago non ci sono più giorni né notti, né luce né buio, anche per i personaggi di Kusturica «Non c’è più sole / Non c’è più luna […] Ci ha coperto il buio della guerra» (“Nema više sunca / Nema više meseca […] Pokriva nas ratna tama”), come recitano i versi della canzone della colonna sonora “Mesecina”.
La guerra ci rinchiude negli scantinati della devastazione, ci conduce nel buio più profondo dell’uomo. L’oscurità, «l’orrore» dell’anima è perfettamente visibile in Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola (1979). Liberamente tratto da “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad, ma ambientato nella guerra in Vietnam, narra del giovane capitano Willard, incaricato di percorrere il fiume Nung fino a sconfinare nei confini cambogiani dove il colonnello Kurtz, preso da manie di potere, ha creato una propria “colonia” sottomettendo la popolazione locale. In questo mastodontico lungometraggio, Kurtz non è semplicemente un folle, è la quintessenza del potere portato all’estremo, affetto da una lucida follia che lo conduce ad ergersi come creatore in terra, da militare a signore di quelle genti da lui sottomesse: dal potere del comando al potere totale su ogni aspetto della vita. Scrive le sue memorie, le sue riflessioni, ha dei libri con sé, come la Bibbia e “The Golden Bough” (James Frazer), uno dei testi fondamentali dell’antropologia evoluzionista, importante studio comparativo dei miti e dei rituali nel
tempo e nello spazio, con tanto di analisi del ruolo e delle funzioni della magia. La fine di Kurtz è un vero e proprio rituale sacrificale: Willard lo uccide e, in montaggio parallelo, assistiamo al sacrificio di un toro (magistrale citazione della sequenza del mattatoio di Sciopero di Ejzenštejn). Il rito è concluso, il divino Kurtz è stato ucciso da un uomo e i suoi “poteri” si trasferiscono a Willard, il quale assorbe l’autorità del defunto, ma decide di abbandonare quelle genti: ha compiuto il suo dovere, il sacrificio è terminato e l’uomo, ormai non più semplicemente umano, assorbe le qualità del divino in quanto suo assassino e abbandona quelle genti, privando la loro quotidianità della presenza del sacro e diventando così un dio moderno e irraggiungibile. «C’è bisogno di uomini con un senso morale e, allo stesso tempo, capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza sentimenti senza passione, senza giudizio, perché è il giudizio che ci indebolisce», così diceva Kurtz. La guerra in Vietnam ha fatto da incubatrice del delirio del colonnello, punto di rottura della mente di Kurtz: il fiume del conflitto lo ha condotto ad abbandonare il senso del giudizio, abbracciando la brama di onnipotenza per poter sostenere il peso della mortifera esistenza bellica.
Dalla discesa verso l’inferno in Cambogia alla salita mortale verso la collina da conquistare in La sottile linea rossa (Terrence Malick, 1998, tratto dall’omonimo romanzo di James Jones). Ambientato durante la Seconda guerra mondiale, i soldati protagonisti si trovano nel Pacifico contro i giapponesi, isola di Guadalcanal: la compagnia deve ubbidire ad un colonnello pronto a far morire tutti i suoi uomini, pur di conquistare i propri obiettivi. Malick scoperchia le assurdità fondamentali dei conflitti, degli uomini messi uno contro l’altro, uccisi per estremi voleri superiori. Variegata è la compagnia della pellicola, personaggi dettagliati, ricchi di complessità, persi in una guerra in pieno contrasto con la serenità degli animali, della natura che li circonda, la quale esiste in armonia e senza conflitti. Gli ufficiali vengono sostituiti, quelli che tengono alla vita dei propri uomini sono mandati via: la guerra, per durare, deve essere condotta da chi non vuole ostacolarla, e il capitano Staros paga le conseguenze di questa politica. I comandanti si susseguono e gli uomini periscono, nemmeno si sa più contro chi o per che cosa si spara: bisogna irregimentarsi, pensare il meno possibile, ed eseguire. Anche il cinico, ma per nulla malvagio, sergente Welsh arriva alla nausea più assoluta: «Tutte bugie, tutto quello che vedi, tutto quello che senti. Così grosse da vomitare. Non fanno che arrivare, uno dopo l’altro. Ti ritrovi in gabbia, una gabbia che va di qua e di là: ti vogliono morto o parte della loro bugia».
Le guerre come paralisi, come violenza senza controllo, volontà di potere, annullamento dell’umanità, morte e sangue. Questi citati sono solo quattro dei molti film sulla guerra: opere tese non a celebrare i conflitti, ma capaci di mostrarci i veri effetti degli scontri armati sugli uomini, sulle vite dei soldati e dei civili. Ci sono tanti altri lungometraggi bellici di cui parlare, e molti altri ce ne saranno, dato che nuovi conflitti nascono di continuo, senza sosta. Una frase semplice, ma efficace, presente nel film di Olmi sopra citato, ci spiega bene perché dalle guerre non riusciamo a distaccarci. È il pensiero di un personaggio “umile”, reduce della Grande Guerra, il pastore Toni Lunardi: «La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai».
Silvio Gobbi