In questi giorni si è molto parlato di Afghanistan, sappiamo tutti il perché. Ebbene San Severino può vantare un grande conoscitore della situazione di quello sfortunato Paese: il Colonnello dell’Esercito Gianluca Bonci, 48 anni, sposato, padre di due figli, in servizio alla Nato dal 2018 come responsabile della “Sezione addestramento operazioni correnti” presso il Joint Force Training Center (JFTC) di Bydgoszcz, in Polonia. La sua famiglia è molto nota a San Severino: la mamma Concetta è stata la “maestra” di tanti di noi, il papà, pure Ufficiale dell’Esercito, è andato in pensione con il grado di Colonnello, dopo aver prestato servizio presso l’allora Distretto militare di Ancona, oggi divenuto Comando militare Esercito Marche.
Gianluca, dopo il diploma, si è formato alla prestigiosa Accademia militare di Modena e ha proseguito poi il suo percorso studi a Torino, presso la Scuola di Applicazione, conseguendo nel corso della sua carriera due lauree – in Scienze dell’informazione e in Scienze strategiche – e ben tre master: in Studi internazionali strategico-militari (Università “Roma Tre”), in Sciente strategiche (Università di Torino) e in Servizi logistici e di comunicazione per sistemi complessi (Università “Sapienza” di Roma). Appassionato cultore di storia, ha già scritto diversi saggi, editi – tra l’altro – da una casa editrice importante come la “LEG”; è conferenziere accademico su tematiche militari e geopolitiche e collabora attivamente con periodici come “Rivista Militare” o “Focus Wars”. Attualmente sta ultimando un nuovo libro, unitamente al professor Gastone Breccia (docente di storia bizantina presso l’università di Pavia), dal titolo “Le grandi vittorie dell’Esercito Italiano: dalla Cernaia all’operazione Nibbio, le battaglie e le campagne militari più gloriose”.
Proprio l’operazione “Nibbio”, datata 2003 e caratterizzata da un’alta connotazione operativa, ha visto come teatro di guerra l’Afghanistan. Il Colonnello Bonci – allora Tenente – l’ha vissuta in prima persona, così come altre sei missioni tra cui la Bosnia, il Kosovo, la Macedonia e l’Iraq. “Nibbio” fu una delle più complesse e rischiose operazioni compiute dalle Forze Armate italiane dalla seconda guerra mondiale. Si svolse dal 15 marzo al 15 settembre 2003 nell’ambito dell’operazione “Enduring Freedom”, con lo scopo di creare un ambiente stabile e sicuro attraverso l’eliminazione delle persistenti sacche di resistenza di Al Qaeda e dei Talebani e di interdire la libertà di manovra alle formazioni armate operanti sul territorio, con particolare riguardo alle aree di confine con il Pakistan.
Colonnello, da allora è tornato ancora in Afghanistan?
«Sì, nel 2005 per l’operazione ISAF (da Capitano; ndr), in quel caso una missione di sostegno alle forze governative del Paese. Più recentemente sono stato diverse volte a Kabul, Mazar i Sharif ed Herat, dove era schierato il contingente militare italiano, nell’ambito delle mie attribuzioni in seno alla NATO. L’ultima volta è stata nel novembre 2019».
Ora, dopo vent’anni di presenza militare occidentale, il ritiro dei contingenti e il ritorno al potere dei talebani. Che ne pensa?
«Il mio ruolo impone cautela nel giudizio. Da storico, prima che da militare, posso affermare che le avvisaglie di quanto sarebbe accaduto erano molto chiare».
«L’Afghanistan è un Paese a sé rispetto allo scenario mediorientale e centroasiatico, completamente fuori dal normale. Sono molto tradizionalisti, c’è un Islam assai radicato e radicale. Nella capitale e nelle grandi città riesci a raggiungere l’opinione pubblica – a conquistarne i cuori e le menti – ma nelle campagne o nelle aree montane – che costituiscono il vero Afghanistan – l’arretratezza culturale ed economica ci riporta indietro di secoli a una società tribale dove corruzione, indigenza, povertà, dinamiche paternalistiche, tradizioni secolari e fondamentalismo religioso si combinano, producendo un tessuto sociale completamente avulso da qualsiasi concezione occidentale. Proprio in queste aree i Talebani hanno ricevuto il maggior sostegno; un aiuto che prima gli ha permesso di resistere allo sforzo bellico della NATO e successivamente ha rappresentato il trampolino di lancio per la riconquista del Paese. Inoltre, stiamo parlando di un’area che si contraddistingue per essere un crogiuolo di etnie e tribù che non si sono mai riconosciute in un’unica Nazione, in un unico popolo, se non per combattere gli eserciti invasori stranieri. Patria o Nazione sono concetti sconosciuti in Afghanistan. Ogni etnia persegue interessi particolaristici. Per queste popolazioni l’Afghanistan come tale è poco più – per dirla alla Metternich – di una “mera espressione geografica”. L’etnia sunnita Pashtun, che rappresenta la maggioranza degli abitanti e si trova nel sud e nell’est, è quella da cui provengono i Talebani e che li ha sostenuti, politicamente e militarmente. Al centro vi è la minoranza Hazara, di fede sciita, spesso perseguitata dagli “Studenti coranici” e in conflitto con i Pashtun, mentre a nord e a ovest si trovano gli Uzbeki, i Kirghizi e i Tagiki, da sempre in contrasto con le tribù Pashtun del sud. L’ultima resistenza al ritorno dei Talebani è offerta, nella valle del Panshir, proprio dai Tagiki, guidati dal figlio del grande Massoud, straordinario capo della resistenza afghana negli anni dell’invasione sovietica e unica figura politica unificante del Paese, ucciso da un vile attentato di Al Qaeda, due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle. In questo complesso mosaico, l’errore più grave – a livello politico, prima che militare – è stato probabilmente quello di applicare schemi occidentali per la cosiddetta “esportazione della democrazia” e per la ricostruzione del Paese, nonché per cercare di risolvere problemi che affondano le proprie radici nella millenaria storia di questa parte di Asia da sempre crocevia di interessi strategici e geopolitici delle grandi potenze mondiali, se solo pensiamo che Halford Mackinder, il famoso geopolitico inglese, inserì a pieno titolo l’Afghanistan come parte integrante dell’“Heartland”, ovvero di quel “cuore del mondo” il cui controllo garantisce la primazia nel contesto politico, economico e militare internazionale».
L’azione americana e occidentale nacque dall’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre 2001. Sono passati vent’anni, le vittime Usa e NATO in Afghanistan sono state più di 3.400 e ora al potere si rivedono ancora i talebani etichettati come “terroristi”. È stato tutto vano allora?
«La situazione è straordinariamente complessa e di non semplice interpretazione, soprattutto per il futuro, dove le variabili sono molteplici: dalle politiche che i Talebani intraprenderanno alle prevedibili infiltrazioni economiche cinesi nell’area, passando per le possibili sanzioni internazionali, la postura della Russia e l’atteggiamento di quelli che apparentemente sono i grandi sconfitti, gli Stati Uniti. Il problema principale, soprattutto per l’Europa, è ovviamente un eventuale ritorno di fiamma del terrorismo di matrice fondamentalista islamica che potrebbe colpire, prendendo spunto proprio dal successo talebano in Afghanistan o addirittura – nel peggiore degli scenari – ricevere nuovamente un appoggio concreto dal neoinsediato governo di Kabul. In ogni caso, 20 anni rappresentano una generazione e il tempo e gli sforzi profusi non si cancellano in pochi giorni. Sebbene scettico, la speranza è che il seme della democrazia, che certamente la presenza occidentale ha gettato in questo Paese, germogli nei più giovani per far sì che una diversa mentalità possa emergere per il futuro. Proprio in questi giorni le donne afghane, completamente estromesse dal governo talebano, hanno più volte manifestato nelle principali città del Paese».
Lei conosce bene l’Afghanistan, ma è stato in missione anche in Bosnia, in Kosovo e in molte altre nazioni. Ora in Polonia di cosa si occupa?
«Sono responsabile della preparazione – in gergo militare dell’approntamento – dei Comandi militari della NATO impegnati in operazione all’estero. Più concretamente e semplicemente, formiamo i “quadri”, cioè gli Ufficiali responsabili delle operazioni, sotto vari profili: operativo, tecnico, culturale…».
Così, da queste profonde esperienze, sono nati anche i suoi libri, giusto?
«Ho sempre avuto la passione per lo studio, la ricerca e la scrittura, anche per via del mio lavoro. Ho cominciato con “Le spade di Allah”, dedicato proprio alla resistenza afghana nel corso dell’invasione sovietica. Un tema che ho successivamente ampliato ed esaminato con “La guerra russo-afghana”, per poi approfondire l’argomento della “controguerriglia”, con un volume che ne analizza l’evoluzione, le tattiche e gli aspetti tecnico-militari attraverso l’analisi di casi storici, dalla resistenza spagnola alle truppe di Napoleone alle operazioni tedesche nella lotta ai partigiani, fino alle guerre post coloniali portoghesi in Africa o alle azioni dell’esercito inglese in contrasto dell’IRA (Irish Republican Army) nell’Irlanda del Nord».
Quando uscirà l’ultimo suo lavoro sulle vittorie dell’Esercito italiano?
«A breve, ormai siamo alle stampe…».
Sarà cura del Settempedano riferire ai suoi sulla pubblicazione. E complimenti al Colonnello Bonci.