Luis Buñuel, uno dei registi più acuti della storia, dissacrante, geniale ed irriverente, negli anni Trenta, poco dopo l’uscita del suo secondo film, L’âge d’or (1930), vive un periodo difficile. L’opera ha scandalizzato il pubblico intero, non tira una buona aria per il giovane regista emergente. Il suo radicalismo, formale e contenutistico, ha turbato gli animi di troppi benpensanti, e la sua vita ne risente: nessuno vuole più produrre i suoi lavori. Ma, fortunatamente, si presenta un’occasione: girare un documentario su Las Hurdes, una zona poverissima della Spagna, dimenticata da tutti. Un suo amico, l’operaio anarchico Ramón Acín, dopo aver vinto alla lotteria, decide di finanziare le riprese del primo e unico documentario di Luis. Il regista, giunto in quella terra desolata, popolata da abitanti così distanti da lui e dal suo mondo, documenterà la vita mesta di quelle genti, e si ritroverà a fare i conti con sé stesso, il suo carattere, i fantasmi del suo passato e le sue turbe più antiche.
Il film d’animazione Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe, diretto da Salvador Simó, è uscito in Italia nel 2020, è disponibile su Prime Video ed è stato premiato come “Miglior film d’animazione” sia agli European Film Award (2019) che al Premio Goya (2020).
In quest’opera, le visioni di Buñuel prendono corpo, e l’animazione, curata e dinamica, ben si presta a dare vita alla mente del regista surrealista più famoso di sempre: i suoi fantasmi, i suoi pregi, difetti, le sue fobie, sogni e speranze fanno continuamente capolino nella vicenda, stimolando la sua fantasia e la sua ricerca di senso nell’esistenza. Recarsi a Las Hurdes è una vera prova per il suo carattere, significa ritrovarsi faccia a faccia con la miseria, documentarla e distaccarsi dall’arte surrealista, fortemente fondata sulla fantasia più imprevedibile. Ma questo viaggio, alla prima apparenza paradossale, è, in realtà, fondamentale per il regista. Il grande tuffo a Las Hurdes, permette al giovane Luis di prendere pienamente coscienza di quanto molti esseri umani siano ancora costretti a vivere nell’estrema povertà. Una condizione assurda, impensabile, proprio come i suoi film surrealisti: la realtà sa essere tanto inaccettabile ed irreale quanto le sue opere di fantasia. Salvador Simó non realizza soltanto un film di animazione di ottima qualità, dalla ritmata costruzione e dalle efficaci immagini, ma racconta un vero pezzo di storia di cinema. Quel tassello praticamente dimenticato da tutti, la realizzazione del documentario del 1932 Terra senza pane, capace di far aprire al regista spagnolo gli occhi sulla realtà: gli ultimi, i dimenticati, quelli che non possono soddisfare nemmeno i bisogni più elementari. Quella terra amara, quelle persone senza voce, quei bambini morenti, si tatuano nella mente di Luis e, da quel momento, egli non scaccia più la realtà dalle sue opere. Perché, da quel documentario in poi, Buñuel non si è più rifugiato soltanto in sequenze filmiche incomprensibili, difficili da decifrare, dalle caratteristiche marcatamente ermetiche ed oniriche, ma ha usato il surrealismo (dopo un periodo di cinema dall’impronta più realista) per screditare sempre di più la bigotteria borghese, rappresentandone i lati più putridi per deriderli, schernirli ferocemente, sempre con un acume capace di disarmare chiunque (specialmente dagli anni Sessanta in poi). Ed il più grande pregio di Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe è proprio questo: raccontarci quell’esperienza chiave del giovane Luis, quel punto di svolta che ha permesso ad uno dei più grandi registi spagnoli di capire la sua strada artistica per poterla sviluppare nel migliore dei modi, facendogli comprendere che non c’è nulla di più incomprensibile, di più impensabile, della verità stessa, dalla quale si può sempre attingere.
Silvio Gobbi