Quando si parla di Quarto potere (Citizen Kane, 1941), l’unica e sovrastante immagine che viene in mente è quella del giovanissimo Orson Welles. All’epoca aveva soltanto venticinque anni: era un ragazzo che ottenne dalla R.K.O. la possibilità di scrivere, girare e montare un film in assoluta libertà, senza alcun vincolo da parte della produzione. Una rarità nel cinema di quegli anni, dove i produttori mettevano bocca ovunque e prendevano decisioni su ogni aspetto della lavorazione di qualsiasi film. Welles sfruttò questa occasione per mostrare la sua caparbietà ed il suo genio, realizzando un’opera innovativa per l’epoca, diventata un pezzo fondamentale della storia del cinema. La pellicola narra la vita di Charles Foster Kane, magnate della stampa, uomo incapace di amare, destinato a vivere nel vuoto e nella solitudine: tutto il potere da lui accumulato in vita non può colmare il vuoto ereditato dall’infanzia. Un film ambizioso per un regista esordiente, stilisticamente all’avanguardia: l’utilizzo della profondità di campo, i continui salti nel tempo, le figure dall’impronta espressionista; questi sono solo alcuni degli aspetti che fecero di Welles già un maestro al suo esordio. Ma pochi sanno che dietro a questo lungometraggio ci fu la penna di Herman J. Mankiewicz, conosciuto come Mank: giornalista, critico ed infine sceneggiatore a Hollywood. Un uomo dalla verve fulminea, brillante, ma dedito all’alcol ed abbattuto dalla bigotta e retrograda società in cui si trovava. Fu lui a realizzare il personaggio di Charles Foster Kane, ispirandosi ad un uomo realmente esistente, William Randolph Hearst. Editore ed imprenditore californiano: un personaggio più che potente al tempo, sempre circondato da politici, produttori e personaggi noti, compreso il nostro Mankiewicz, con il quale ha avuto un rapporto difficile. Herman, rimasto senza soldi per via della sua vita e dei suoi numerosi debiti, accettò di lavorare per Welles, realizzando così il suo capolavoro, tant’è che vinse il premio Oscar per “Migliore sceneggiatura originale”.
David Fincher descrive questa esperienza nel film Mank, uscito recentemente su Netflix. Affida il ruolo da protagonista a Gary Oldman e non poteva fare scelta migliore: l’attore inglese porta sullo schermo un personaggio brillante e disincantato, con un’interpretazione inappuntabile, eroe tragico moderno, autentico e senza tronfiezza. Nel film, viene citato lo stile di Quarto potere: i continui flashback, il bianco e nero, le riprese (in certi momenti, le inquadrature del film di Fincher sono le stesse del film di Welles). Fincher è noto per film intriganti, dalla regia serrata e fitta, come Seven, Fight Club, Zodiac, Gone Girl, ed in questa sua ultima opera raffigura un personaggio che vive il peso, le discordanze della Hollywood e degli USA di quegli anni, un uomo dal carattere forte che non poteva non scontrarsi con il mondo. Ma Herman è rassegnato, e la sua storia ci fa ben cogliere come è arrivato a tal punto. Fincher associa Mank ad un don Chisciotte novecentesco che combatte contro i mulini a vento del suo tempo. Iconica è la sequenza dove lui, ubriaco, cita il cavaliere de La Mancha nel monologo che tiene nella reggia di Hearst, dove conclude con un vomito liberatorio nel salone da pranzo, come a dire: “Ecco a voi tutto il marcio che ho tirato fuori, tanto con le parole quanto con lo stomaco”. È difficile raccontare la vita di un personaggio: si rischia di scadere nella scontata narrazione biografica di molte fiction. Ma il regista segue un insegnamento pronunciato da Mank stesso, ossia che non ha senso narrare una storia lineare per descrivere la vita di un personaggio, perché è impossibile raccontare la vita di qualcuno in due ore, ma la si può fare intuire con delle scene, dei riferimenti e degli episodi ben mirati. Così fa Fincher: costruisce il suo puzzle temporale, composto da tanti pezzi che arrivano a farci cogliere Mankiewicz nel suo profondo, nelle sue contraddizioni e nei suoi pregi. Conosciamo dei frammenti di lui, i giusti pezzi incompleti che costruiscono il nostro protagonista. Durante la lavorazione della sceneggiatura, Herman cita Pascal, e noi possiamo citare un’altra frase di questo pensatore per descrivere il nostro protagonista: «È molto più bello sapere qualcosa di tutto, che tutto di una cosa; questa universalità è la cosa più bella». E Fincher ci fa cogliere questa universalità di Mank, facendoci apprendere qualcosa del suo tutto, scoprendo vari, tristi e ironici, episodi della sua travagliata e delusa esperienza.
Silvio Gobbi