Nel 1912, a Lawrence (Massachusetts, USA), ci fu un grande sciopero degli operai tessili: lavoratori sottopagati, molti immigrati, tante donne e bambini. Faticavano per più di cinquanta ore a settimana, con paghe misere, a condizioni disumane: partì una delle più famose proteste della storia. Uno degli slogan dell’evento fu: «The worker must have bread, but she must have roses, too» (la lavoratrice deve avere il pane, ma anche le rose). Una frase tratta dal discorso della femminista Rose Schneiderman e presente nella poesia di James Oppenheim del 1911 che recita: «I cuori han fame così come i corpi: Dateci pane, ma dateci anche rose!». Il tempo scorre velocemente, e si va dal 1912 al 2000 in un attimo. Molte altre lotte sono state fatte, tanti i diritti conquistati, ma altrettanti persi in maniera repentina e sorprendente: il pane e le rose, il cibo e la bellezza, ancora mancano, negli USA e nel mondo. Anche per Maya non ci sono fiori: è fuggita dal Messico per raggiungere la sorella Rosa a Los Angeles, per lavorare nell’azienda di pulizie che permette a Rosa di tirare avanti, donna con due bambini ed un marito malato di diabete senza assistenza sanitaria. Maya viene inserita nella ditta: turni lunghi, bassa retribuzione, nessuna assicurazione sanitaria né pensionistica. Tutti i suoi colleghi sono immigrati, come quelli di Lawrence. La ragazza conosce il sindacalista Sam: i due, insieme, convincono gli altri pulitori ad organizzarsi affinché l’azienda riconosca le giuste tutele lavorative. Ma il percorso è tortuoso, lungo, pieno di piccoli e grandi intoppi: negli USA, dove dagli anni Ottanta in poi, le tutele dei lavoratori sono sempre più calate, la battaglia per il pane e le rose è un percorso in salita (e non solo in questa nazione). Ken Loach, con Bread and Roses (2000), racconta questa vicenda con il suo solito tono leggero e profondo insieme: la realtà è dramma e commedia, serietà e ironia. Non ci sono categorie stereotipate, non ci sono santificazioni: il tradimento può annidarsi ovunque, gli errori possono essere commessi da tutti, sia in buonafede o meno. Maya e Sam portano avanti questa lotta di giustizia: non vogliono più che i dipendenti vengano licenziati ingiustamente, da un capo pronto a cacciare un lavoratore per un ritardo o per un acciacco della vecchiaia. Loach, insieme allo sceneggiatore Paul Laverty (collaboratore del regista sin dal film Carla’s Song, 1996, fino al recente Sorry We Missed You, 2019), danno vita ad una storia sincera, senza superficialità né banalità: l’opera è coinvolgente ed evita i clichés con dimestichezza. I caratteri dei personaggi sono dettagliati grazie alle piccole accortezze, alle battute, agli atteggiamenti: il regista ci dona, come sempre, storie a sfondo sociale, dove la tematica del lavoro è al centro, ma senza dimenticare la dimensione intima, umana, di ogni protagonista. Uomini e donne, con i loro pregi e difetti, con i loro unici caratteri: esseri umani, non astratte ed aride categorie sociologiche. Ed il senso di umanità di ognuno è sprigionato al massimo, ogni figura è descritta a trecentosessanta gradi. La cinepresa accompagna e riprende gli eventi, segue Maya a seconda del suo sentimento, delle sue affinità, senza che il mezzo sovrasti il messaggio. Loach, con Bread and Roses, conferma la sua abilità di farsi sentire senza urlare, facendoci capire come le lotte per i diritti siano eterne, pronte a ripresentarsi ciclicamente. Riguardo ciò, sottolineiamo ora una particolarità dell’opera. All’inizio della pellicola, Maya arriva dal Messico a bordo di un fuoristrada guidato dai trafficanti di immigrati, ma questi non la fanno scendere perché Rosa non ha abbastanza denaro: mentre la macchina si allontana, Maya vede la sorella attraverso il finestrino. Ed alla fine del film, quando Maya viene rimpatriata per il Messico, di nuovo vede dal finestrino del furgoncino Rosa, in strada, che la saluta. L’arrivo è come l’addio: questa circolarità tra inizio e fine è il segno della ripetizione degli eventi, il reiterarsi delle speranze che vanno e vengono, delle lotte che iniziano, finiscono e poi devono riprendere perché non terminano mai. Maya era tra i tessili a Lawrence nel 1912, era con i pulitori a Los Angeles nel 2000, sicuramente è qui, nel 2020, tra i tanti che tribolano che per la giustizia, e ci sarà negli anni per ricordarci le parole di Oppenheim: «Mentre marciamo, marciamo / Portiamo giorni migliori».
Silvio Gobbi