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Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto

Cinquant’anni di “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”

Pubblicato da Redazione in Cultura 28 febbraio 2020 4,021 Visite

«Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano», Franz Kafka. Con queste parole, si conclude il film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di Elio Petri, 1970: cinquant’anni esatti. Ed il protagonista della vicenda, il funzionario/dirigente-commissario di polizia, il “Dottore” (un magistrale Gian Maria Volonté), è un uomo che sfugge ad ogni giudizio umano possibile. Prima capo della sezione omicidi, poi dell’ufficio reati politici, è un personaggio dalla doppia natura: austero e granitico nel lavoro, debole nell’intimità. Poco prima di occuparsi della sezione politica, egli uccide la propria amante, Augusta Terzi (Florinda Bolkan): nessuno è a conoscenza della loro relazione, tranne un anarchico che vive nello stesso palazzo della donna. Inebriato dal proprio potere, sapendo di essere intoccabile, il commissario riesce a depistare l’intera indagine, cancellando ogni possibile prova a suo carico, senza destare il benché minimo sospetto. Nessuno lo accusa: sembra che sia riuscito a compiere il delitto perfetto. Un film ambientato nei difficili anni Sessanta/Settanta, quelli caratterizzati dalla lotta politica tra sinistra extraparlamentare, anarchici, Stato e forze dell’ordine. Ma questo è solo l’aspetto più superficiale della vicenda, l’abito che copre il corpo: con questa pellicola, Elio Petri non racconta soltanto una storia a sfondo politico, ma va oltre, arrivando ad interrogarsi sull’incapacità umana di realizzare una possibile connessione tra giustizia, verità e potere. Il commissario, una figura che dovrebbe rappresentare il potere al servizio della giustizia è, nella realtà, lontanissimo da quest’ultima. Grazie anche ad una musica alienante, composta da Ennio Morricone, e l’ambientazione in una Roma calda e soffocata, Elio Petri (con la fondamentale collaborazione alla sceneggiatura di Ugo Pirro), ci dà un romanzo kafkiano su pellicola. Anziché l’assurdità del processo, qui abbiamo l’impossibilità di andare a processo: mentre nel romanzo di Kafka, l’innocente signor K finisce sotto accusa senza capire assolutamente il perché, qui il commissario riesce a non farsi processare perché è un uomo di potere. La situazione è ribaltata, ma il contenuto è lo stesso: la siderale distanza tra verità e giustizia, tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Un innocente risulta colpevole, ed un colpevole risulta innocente. Il tutto è sapientemente rafforzato dagli ambienti e dalle inquadrature. Ambientazioni essenziali, in certi casi scarne alla Brecht (come la sala interrogatori nello scantinato, con tanto di mattoni ben visibili alle pareti): l’essenzialità di Brecht è indice dell’intento dell’autore, quello di farci concentrare sulla vicenda e sul violento messaggio veicolato. E le inquadrature, serrate, con una quantità elevata di primi e primissimi piani, tendono a farci focalizzare fortemente sui personaggi e sul loro sviluppo, sulle loro forze e debolezze. Il viso di Volonté è caratterizzato da una coriacea severità, con tanto di occhi perennemente a fessura, come per dire: “Io, l’Ordine, controllo te, ma tu non puoi scrutare me”. Una forza che cede nei momenti di crisi del commissario, quando non sopporta il peso di ciò che ha commesso, dove gli occhi diventano allucinati, spalancati e spauriti: una mimica facciale a fisarmonica tale da rafforzare la dualità nevrotica del personaggio (e proprio sulla nevrosi, Petri si concentra nei successivi due lavori, La classe operaia va in paradiso e La proprietà non è più un furto). Volonté incarna il potere e la sua inattaccabilità. Con frasi come «il popolo è minorenne» e «la repressione è il nostro vaccino: repressione è civiltà», il commissario/dirigente di polizia esprime il punto fondamentale dell’opera di Petri: alla base della civiltà è la repressione, attuando qualsiasi possibile forma di controllo, sia fisico che mentale. Un film che non sente il peso di cinquant’anni: da vedere, eliminando ogni associazione “Dottore-Luigi Calabresi” (sì, alcuni videro nella figura interpretata da Volonté una metafora, un’analogia con il commissario coinvolto nel caso della morte dell’anarchico Pinelli). Bisogna uscire da questo limite temporale del contesto degli anni di piombo, presente ma non vincolante, perché il cinema di Elio Petri è più ampio, è antropologico, politico e contestatore solo nella facciata: è molto più profondo, ed è capace di arrivare alle meschinità dell’uomo nella sua storia. Affidandosi sia alla sceneggiatura che ad una tecnica registica di classe, Petri cerca di scendere nelle zone più inesplorate, tremende, violente ed ancestrali dell’essere umano. Non ci sono altri modi per vedere i suoi lavori, se non prendendo tutto ciò che rappresenta come un pretesto, un passepartout per sprofondare in un’analisi individuale sulle origini dei problemi umani: per Petri, la violenza degli uomini di potere è un male che si radica nelle ere e supera la prova del tempo, mutando soltanto la forma e non la sostanza.

Silvio Gobbi

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