Frank Sheeran (1920-2003) fu un sindacalista e mafioso statunitense di origini irlandesi. Dopo aver partecipato alla Seconda Guerra Mondiale (fronte italiano), tornò a Filadelfia e divenne un camionista, aderendo all’International Brotherhood of Teamsters, uno dei più importanti sindacati statunitensi di trasportatori. Grazie ai suoi contatti con il malavitoso italo-americano Russell Bufalino, Sheeran entrò in stretti rapporti con il presidente della Teamsters, James “Jimmy” Riddle Hoffa (1913-1975). Hoffa fu uno spregiudicato sindacalista, invischiato con la politica e la mafia. Jimmy faceva favori alla mafia in cambio di guadagni e di aiuto nelle lotte sindacali dei suoi tesserati. Per un periodo, finì in carcere per corruzione e nel 1975 sparì, dopo che i suoi rapporti con Sheeran, Bufalino e tutte le più influenti famiglie si deteriorarono. Una storia vera piena di ombre, dove politica, mafia e sindacalismo si intrecciano, dando vita ad una realtà dalle mille sfumature, dove il confine tra il bene ed il male è così sottile da non riuscire né ad assolvere né a condannare nessuno: un insieme di eventi così complessi da sfuggire da ogni netta presa di posizione. Un groviglio simile non poteva lasciare indifferente Martin Scorsese, dando così vita al film The Irishman, prodotto Netflix. Una storia di delinquenza, politica e sindacalismo: sicuramente nulla di nuovo per il regista, il quale ha già sfornato capolavori tematicamente vicini come Quei bravi ragazzi (1990) e The Departed (2006). Ma The Irishman non è soltanto un film drammatico incentrato sulla mafia. È un’opera densa, piena di particolari e dalla costruzione pregevole. Come Scorsese ha già insegnato nei suoi precedenti lavori, il cinema è una questione di dettagli: ogni inquadratura, ogni oggetto, ha la propria funzione, quella di completare l’opera e renderla unica. Così, un fermo immagine sui fiori, o la descrizione dei vari tipi di pistole da scegliere per commettere un omicidio, danno alla pellicola quel senso di pienezza, di corposità, tale da rispecchiare la densità stessa della fitta trama. Martin Scorsese realizza un romanzo cinematografico tra storia, azione e malinconia, dove i tre protagonisti, Frak Sheeran (Robert De Niro), Russell Bufalino (Joe Pesci) e Jimmy Hoffa (Al Pacino) si distinguono per le loro memorabili interpretazioni: caratterizzati dai propri vezzi (la forza di Sheeran, la nettezza di Bufalino, la megalomania di Hoffa), sono dei mostri di bravura. Mafiosi con i loro drammi: dalle stelle alle stalle, ognuno passa da una posizione di dominio alla vecchiaia che tutto indebolisce ed alla morte. E per rappresentare tale parabola discendente, Scorsese decide di optare per una regia ritmata meno sincopata del solito: la corsa viene meno per far spazio alla comprensione, all’assimilazione della vita di Sheeran, da uomo forte a vecchietto costretto alla sedia a rotelle per via dell’artrite. L’ombra di C’era una volta in America di Leone aleggia nella pellicola, ma non è una cappa: Scorsese, con questa ultima pellicola, rievoca il cinema del passato (suo e non), realizzando un’opera che è somma e sintesi della sua intera opera. Una lezione di cinema. Cambia registro mantenendo le sue radici stilistiche e dona allo spettatore tre ore e trenta di affresco mafioso, con molti meno clichés del previsto. Un film non da vedere, ma da assorbire in tutti i suoi dettagli, in tutti i suoi dialoghi, per cogliere così le varie sfumature esistenti tra bene e male (tema eternamente presente nel cinema di Scorsese) che, col passare degli anni, si fanno sempre più rarefatte.
Silvio Gobbi