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Home | Cultura | La recensione: “Rapina a Stoccolma”, di Robert Budreau
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Rapina a Stoccolma
Rapina a Stoccolma

La recensione: “Rapina a Stoccolma”, di Robert Budreau

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 912 Visite

Stoccolma, 1973. Il rapinatore Lars Nystrom (Ethan Hawke) è un tipo alquanto eccentrico: si spaccia per il latitante Kaj Hansson, fa irruzione nella sede centrale della Kreditbank svedese e prende in ostaggio due donne ed un uomo. In cambio, vuole la scarcerazione del suo compagno di furti Gunnar Sorensson, un’auto per fuggire e un milione di dollari americani. Durante la prigionia, gli ostaggi scopriranno la vera natura del delinquente: un uomo confuso ma buono, capace di catturare il favore delle vittime. Tra gli ostaggi e Lars nascerà un’empatia particolare, molto forte, tanto che i sequestrati arriveranno ad avere più fiducia verso il proprio carceriere che nei confronti delle forze dell’ordine. Da questa vicenda, verrà poi coniato il termine “Sindrome di Stoccolma”: la particolare condizione psicologica che si sviluppa in alcuni ostaggi, quando essi arrivano a simpatizzare così fortemente con i propri aguzzini da render loro inviso l’intero mondo esterno alla loro condizione. Un problema ancora oggi fortemente dibattuto: gli specialisti del settore si interrogano sul perché e su come possa svilupparsi tale dipendenza psicologica. Basandosi sulle vicende vere accadute a Stoccolma, tratte dall’articolo di Daniel Lang per il «New Yorker», Robert Budreau realizza la sua Rapina a Stoccolma (Stockholm) romanzando, a suo piacimento, ciò che è realmente avvenuto. Un’opera asciutta e dal taglio netto: le buone interpretazioni dei protagonisti vengono in parte frenate dalla regia molto sintetica dell’autore, senza fronzoli né manierismi (ma tale linearità rischia di non far scattare quella molla nello spettatore utile a tenerlo attaccato allo schermo). Una pellicola che galleggia tra la commedia, il dramma ed il grottesco: questa «assurda storia vera» aveva tutto il potenziale per esplodere, ma il detonatore non è scattato. Il regista non ha saputo esprimere al meglio questo soggetto: soltanto Hawke (attore di svariati noti film, come L’attimo fuggente, Prima dell’alba e Onora il padre e la madre), seppur a tratti esasperato nella recitazione, è riuscito a dare un tono particolare all’opera di Budreau. Invece, la psicologia degli altri personaggi è molto appiattita: i comprimari importanti, Sorensson (Mark Strong) e la vittima Bianca Lind (Noomi Rapace), rimangono, seppur ben interpretati, poco sviluppati nella loro interezza. L’autore non riesce a dare spazio alle sfumature dei caratteri, tirando forte il freno della sceneggiatura: escludendo delle scene dove il regista riesce a farci bene intendere la forte intesa nata tra carceriere e carcerati (come quella nel caveau, dove i personaggi vengono ripresi con un piano sequenza che gira intorno a loro, segnando ufficialmente la loro complicità), manca quello slancio nella pellicola capace di catturarci completamente. Dopotutto, non tutti i film riescono ad ammaliarci, come non tutte le vittime di sequestro sviluppano la sindrome di Stoccolma verso i propri aguzzini.

Silvio Gobbi

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recensione cinematografica 2019-06-21
+Mauro Grespini
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