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Home | Cultura | La recensione: “Final Portrait”, la fertilità del dubbio
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Una scena del film "Final Portrait"
Una scena del film "Final Portrait"

La recensione: “Final Portrait”, la fertilità del dubbio

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,116 Visite

Un artista spettinato, burbero, turbato, ma anche fortemente ironico, si trova davanti ad una tela bianca: cosa fare di questa superficie immacolata? Prendere più pennelli, di varia grandezza, e modificare questo spazio pulito con pennellate nervose, dai tratti netti e precisi, che variano dal grigio al nero, imprimendo così sulla tela un ritratto torbido (ma con personalità) del modello che sta posando nello studio. Il soggetto ritratto è James Lord (Armie Hammer), scrittore statunitense, futuro biografo del pittore protagonista Alberto Giacometti (interpretato da un Geoffrey Rush camaleontico ed eccezionale). Il giovane scrittore americano è sottoposto ad una lunga serie di sedute per poter essere dipinto dall’artista: questo è il suo ultimo ritratto, un vero “final portrait” (siamo nel 1964, il pittore morirà pochi mesi dopo aver realizzato questo dipinto). Lo spettatore viene coinvolto dalla forza creativa di Giacometti: la sua figura scapigliata, immersa in un’ambientazione permeata da colori di tonalità grige (proprio come “grigi” sono i ritratti che egli realizza), cattura subito l’attenzione del pubblico. Il regista Stanley Tucci ha deciso di utilizzare quasi esclusivamente la camera a mano: le inquadrature non sono mai fisse né statiche, il movimento è continuamente scattante da un soggetto all’altro ed il fuoco muta continuamente. Tale linguaggio cinematografico sincopato adottato dal regista, rispecchia il modo di lavorare dell’artista protagonista, ricordandoci le sue scattanti e brevi pennellate: Giacometti abbandona e riprende continuamente la tela, alternando momenti intensi di lavoro a tratti di divagazione e distrazione (un’energia che andava e veniva). Il rapporto dell’artista con la sua opera è conflittuale, perché dubita continuamente di ciò che sta realizzando, così ricomincia il proprio lavoro più volte, mentre il modello, pazientemente, asseconda il gioco. Final Portrait di Stanley Tucci è un’opera che riporta su pellicola, in maniera leggera ma non superficiale, uno degli artisti più talentuosi del Novecento: un uomo geniale, turbato, incostante nel proprio lavoro e bohémien nella vita privata. Fortunatamente, il regista non cede né ad una rappresentazione di carattere agiografico né ad una versione denigratoria: in questo lungometraggio, Giacometti è descritto, soprattutto, attraverso la sua arte ed il suo modo di “fare arte”. Il pubblico assorbe la figura dell’artista tramite il suo lavoro, attraverso i suoi segni nervosi, le sue linee nere e scattanti, i suoi caratteristici grigi dai toni vari. La potenza del pittore sta nel suo perenne interrogarsi davanti alla propria opera, il suo continuo dubitare: un’arte del dubbio, del “non-finito”, che non è mai superficialità e sciatteria, ma che è la sua vera e propria risorsa, la sua carica ed il suo stimolo alla perfezione (infatti, ad un certo punto, egli dice: “Quale terreno più fertile del dubbio?”). Allontanandosi completamente dalla struttura canonica del film biografico (di carattere fortemente cronologico e descrittivo), Tucci realizza un’opera che oscilla tra «il fascino del racconto e la precisione di un documentario» e, soprattutto, «“Final Portrait” non è un film sull’arte ma dentro l’arte»[1]. Final Portrait è, infatti, un vero e proprio viaggio all’interno di un mondo ricco di dettagli, dove la grande quantità di particolari e di colori che si mescolano indicano la genialità del lavoro dell’artista. La continua “rielaborazione” da parte di Giacometti delle sue opere, il suo costante dubbio nei confronti di ciò che realizza, non è segno di incompletezza o di incapacità, ma è il simbolo di un dubbio fertile, creatore, denso di lavoro, di forza. Un dubbio fecondo, che ha reso il pittore/scultore svizzero uno degli artisti più importanti del Novecento.

Silvio Gobbi

Nota
[1] Alessandra Mammì, Final Portrait. Un film dentro l’arte di Giacometti, in «L’Espresso», 2 febbraio 2018 (http://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2018/01/30/news/final-portrait-un-film-dentro-l-arte-di-giacometti-1.317767).

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recensione cinematografica 2018-03-17
+Mauro Grespini
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