Bernardo Bertolucci ci ha lasciati. Maestro del cinema, ha raccontato i drammi intimi, l’Italia ed il mondo, attraverso il suo sguardo frantumatore dei canoni. Da giovanissimo (appena vent’anni) fu assistente di Pasolini (amico del padre, il poeta Attilio Bertolucci) per le riprese di Accattone (1961). Non aveva molta voglia di portare avanti l’Università, sentiva di doversi esprimere altrove, fuori dalle mura accademiche, attraverso altri mezzi e modi. Da qui, la crescita cinematografica, il proseguire, l’andare avanti con una camera in mano. Il suo esordio alla regia fu con La commare secca (1962), soggetto di Pasolini: l’eredità del maestro era troppo pesante, influendo sull’autentica voce del giovane esordiente. Bertolucci cominciò poi a staccarsi dal pessimismo antropologico di Pasolini, in un rapporto sempre più conflittuale. Con Prima della rivoluzione (1964) realizzò il suo primo e personale progetto: ambientato a Parma (città natale dell’autore), incentrato sulla relazione amorosa tra un ragazzo e la propria zia, questo film poco riconosciuto (all’epoca) è stato uno dei primi esempi di Nouvelle Vague italiana (l’influenza di quel particolare cinema francese, dei suoi temi scottanti e del suo stile innovativo, gravitò su Bertolucci fino alla fine). Da qui in poi, la voce del regista maturò attraverso le successive pellicole (come Il conformista e La strategia del ragno), fino ad arrivare ad uno dei suoi più importanti prodotti: Ultimo tango a Parigi (1972), con Marlon Brando e Maria Schneider. Una pellicola impregnata dell’atmosfera dell’epoca ed incentrata sull’amore scabroso ed estremo della coppia protagonista. La censura fu risoluta: troppo sesso esplicito per i dettami del tempo, venne bollato come film maledetto, indecente. Con questo nuovo affronto, Bertolucci trovò il modo per far parlare di sé: sia le condanne che gli elogi giocano sempre in favore degli artisti; solo l’indifferenza del pubblico uccide gli autori. Dopo le diatribe dello scandaloso tango, Bertolucci realizzò Novecento (1976). Con un cast d’eccezione (Burt Lancaster, Robert De Niro, Gérard Depardieu, Donald Sutherland, Laura Betti, Stefania Sandrelli e molti altri), il regista narrò i primi cinquant’anni del Novecento nelle campagne emiliane, in una chiave storico-lirica d’eccezione: il realismo delle vicende si trasfigura in una narrazione poetica, a tratti agiografica, ma di qualità, dell’ambiente e dei problemi di quelle campagne, dagli inizi del secolo scorso fino alla caduta del Fascismo. Dopo alcuni film “minori” (come La tragedia di un uomo ridicolo, 1981) nel 1987, con L’ultimo imperatore, il regista parmense vinse di ben nove Oscar, narrando la caduta dell’impero cinese e la detronizzazione dell’imperatore Pu Yi. Una pellicola dettagliata nei personaggi, ricca negli ambienti, descrittivo alla perfezione con delle sequenze memorabili, a volte lunghe come la storia dell’impero cinese. Dopo il conclamato successo internazionale, continuò a produrre film riusciti (Il tè nel deserto, Il piccolo Buddha) ed altri, in patria, passati più in sordina (Io ballo da sola e L’assedio). Infine, i suoi due ultimi colpi: The Dreamers (2003) e Io e te (2012). Nel primo, sullo sfondo del ’68 francese (il mito di Mao, Henri Langlois, Truffaut, Godard, la Nouvelle Vague) Bertolucci ambientò il triangolo amoroso-incestuoso tra due gemelli, Isabelle (Eva Green) e Théo (Louis Garrel), ed uno studente americano a Parigi, Matthew (Michael Pitt): egli fuse il sesso ed il proibito con il mondo esterno in fiamme, la Francia pronta mutare per via della rivolta culturale. Con Io e te, ispirato ad un racconto di Niccolò Ammaniti, Bertolucci, ormai sulla sedia a rotelle, girò il suo ultimo film: la storia di un incontro problematico tra un ragazzo e la sorellastra, i quali passano una settimana insieme, scoprendosi a vicenda nel bene e nel male. Un dramma intimo, chiuso al mondo esterno come lo scantinato dove sono ambientati i fatti narrati. Bertolucci è sempre stato questo: un continuo altalenare tra il mondo di fuori e quello interiore. Un poeta narrativo, le cui storie sono un dialogo tra la società e l’intimità, tra il lecito ed il proibito. Attento sia alle trame che alla loro visione, ha sempre fatto sì che le immagini non solo descrivessero, ma anche raccontassero le vicende. Sapeva che il cinema è, prima di tutto, immagini e scene: i suoi film non solo storie interessanti, ma irripetibili esperienze visive, le quali lo hanno reso l’ultimo poeta del cinema italiano, abile non solo nel creare storie, ma soprattutto nel narrarle e visualizzarle.
Silvio Gobbi