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Home | Cultura | La recensione: “Tonya”, il talento senza sostegno
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I, Tonya
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La recensione: “Tonya”, il talento senza sostegno

Pubblicato da Mauro Grespini in Cultura 1,837 Visite

Avere un talento è raro, pochi esseri umani ne sono in possesso, ma a questi pochi individui talentuosi non basta detenere una particolare dote: essi debbono vivere in un contesto favorevole e avere delle persone sufficientemente intelligenti da sostenerli ed aiutarli, al fine di esprimere al massimo le proprie capacità. Purtroppo, molto spesso, non è così, e molti talenti vengono perduti. Il talento è un peso, suscita ammirazione e invidia simultaneamente. È un dono che gratifica, ma al tempo stesso un flagello che castiga il detentore; come scriveva Truman Capote: «Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione»[1]. E questo dolore è quello che ha vissuto Tonya Harding, protagonista di una vicenda di pura flagellazione e autoflagellazione, raccontata con ritmo, dal regista australiano Craig Gillespie nel suo recente film I, Tonya. Un’opera potente per ciò che racconta: una storia biografica, narrata con un alternarsi tra la “pura finzione filmica” e “vere e finte” video-interviste ai personaggi della vicenda (tali video-interviste sono recitate dagli attori, i quali, in certi casi, hanno reinterpretato le interviste fatte ai reali personaggi della storia). Il regista vuole giocare con lo spettatore, vuol far vedere come una vicenda possa essere raccontata sotto vari punti di vista, a volte contraddittori l’uno con l’altro (a causa delle differenti testimonianze parallele), ma tutti concorrenti a creare la storia nella sua totalità, con i suoi punti di contatto e le sue incoerenze. Contraddizioni che investono e sconvolgono la vita del personaggio principale, Tonya, la giovane talentuosa pattinatrice: una ragazza che ha subito il peso del suo talento, affossato dalla severità della madre (una donna arcigna e gelida verso la propria figlia), e sfortunata anche nella scelta del marito, un uomo violento e frustrato che riesce solo a danneggiare la vita e la carriera della propria moglie. Gli attori sono eccellenti, specialmente Margot Robbie, nel ruolo di Tonya, ed Allison Janney nel ruolo della madre, LaVona Harding (ruolo che le è valso il recente Oscar come “Miglior attrice non protagonista”). Tonya è interpretata in maniera intensa da Margot Robbie, la quale dimostra, definitivamente, di non essere solamente bella, ma anche brava nel calarsi nella psicologia di questo personaggio così forte, conflittuale, ed in costante lotta con l’ambiente circostante. La giovane attrice ha confermato quelle potenzialità già presenti, ma sostanzialmente nascoste, in The Wolf of Wall Street (Martin Scorsese, 2013), riuscendo a calibrare perfettamente ogni sua azione, perfino nelle più ardue scene di pura micromimica (esemplare la scena di lei davanti lo specchio, mentre si trucca prima della gara). Altrettanto grandiosa è Allison Janney. L’attrice americana riesce a dare vita ad un personaggio profondamente odioso e gelido. Un odio ostentato, glaciale e non inespressivo, corroborato da un atteggiamento continuamente astioso: il viso della Janney è una maschera di smorfie veloci ed appena accennate, quasi impercettibili, ma evidenti ed efficaci. Così, quella figura slanciata, dal viso lungo e impassibile, un volto quasi alla Modigliani senza colori né vitalità, si trasforma in una carnefice psicologica da premio Oscar. Con una storia così forte già di suo, e con due attrici così capaci, il regista ha giustamente optato per una regia presente, ma non invadente: le carrellate (tecnicamente perfette) di Tonya che gareggia, ed i primi piani sui volti delle attrici nei loro momenti di contrazione e dolore, rendono la pellicola ancora più pregevole. Il regista non si è annullato, anzi, ha saputo ben indirizzare la regia e la tecnica in modo tale da valorizzare, al massimo, la vicenda, con una costruzione senza intoppi durante lo sviluppo. Gillespie dimostra, tramite la vicenda di Tonya, che il talento in sé è niente, se non viene coltivato e se non si sviluppa in un ambiente favorevole, stimolante, composto dalle persone giuste: il costante sforzo di Tonya nel suo allenarsi non è stato sufficiente per essere la migliore, perché nella «guerra per il successo è nata dalla parte sbagliata. La sua appartenenza sociale la rende inadatta a rappresentare la donna americana, come si pretende da una campionessa. […] Non diventa la numero uno, né mai lo sarebbe potuto diventare»[2]. Era nata nel contesto sbagliato, dove il suo talento non poteva avere sostegno né sbocciare: per lei, la sua dote è stata solo la “frusta” di cui Capote scriveva.

Silvio Gobbi

Note
[1] Truman Capote, Musica per Camaleonti, edizioni Garzanti, 2000; citato in http://www.sagarana.it/rivista/numero11/saggio7.html.
[2] Roberto Escobar, Un’eroina perdente, inserto «Domenica» de «Il Sole 24 Ore», 1° aprile 2018, p. 31.

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recensione cinematografica 2018-04-01
+Mauro Grespini
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