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Nel riquadro il professor Tartabini
Nel riquadro il professor Tartabini

Angelo Tartabini: “Intelligenza artificiale e intelligenza umana”

Non voglio essere polemico, almeno questa è la mia intenzione, ma quando pensiamo all’Intelligenza Artificiale (IA) e alle sue ripercussioni su chi ne fa un largo uso – bambini, ragazzini, uomini e donne adulte, ricercatori e professionisti in tutti i luoghi del mondo – dobbiamo fare una riflessione anche sull’intelligenza umana.

Si può andare negli angoli più remoti e più sperduti della Terra dove l’assistenza sanitaria è praticamente inesistente, dove non c’è cibo per tutti, dove manca l’elettricità, l’acqua è scarsa e spesso inquinata, dove tutto è precario; luoghi in cui ci sono dei conflitti armati (attualmente nel mondo ce ne sono una sessantina e, dal momento che esistono 193 Nazioni, vuol dire che più del 30% degli Stati è in guerra!): tutti, indistintamente, nonostante ciò, tengono permanentemente un cellulare in mano.

Certo, l’IA ha portato dei grandi vantaggi, questo nessuno lo può negare, ma ha anche sollevato dei grandi problemi, soprattutto per coloro che la usano smodatamente, dal momento in cui si alzano al mattino a quando vanno a dormire la notte. Ci si avvale dell’IA persino quando si mangia, basta andare in un ristorante per accorgersene; in una famiglia la mamma è al cellulare, il papà è al cellulare e i figli sono tutti al cellulare, sebbene ci sia da chiedersi che cosa ci facciano con il cellulare in mano in momenti come quelli in cui si mangia, che dovrebbero essere di intimità.

Non si capisce davvero bene il perché tanto più che è un’attività, quella di stare al cellulare che, anche se importante, si potrebbe svolgere in altri momenti e luoghi. Ricchi o poveri che siano, tutti posseggono uno smartphone all’ultimo grido, persino coloro che non hanno quasi niente per vivere: poveri assoluti, mendicanti, migranti senza tetto, clandestini, rifugiati politici, condannati per reati e sottoposti ai domiciliari, ma che continuano ad avere contatti con l’esterno tramite un cellulare.

In psicologia questo si chiama “stato di dipendenza”, condizione che ostacola le nostre emotività più naturali e, peggio ancora, diventa come una droga, in grado di far cessare i nostri stati d’ansia: stati mentali analoghi, anche se ovviamente non uguali a quelli che provano i tossicodipendenti.

Il possesso del cellulare diventa un desiderio ossessivo-compulsivo dal quale è difficile sottrarsi. Sappiamo bene che chi perde un cellulare, al momento, resta sconvolto come se gli mancasse l’oggetto più importante della sua esistenza. In sostanza, non ci sono dipendenze solo da alcool, droga, gioco d’azzardo, pornografia, eccetera, ma anche da un uso eccessivo dell’IA, quindi di Internet, social media, Instagram, Facebook, TikTok eccetera.

Per esempio, nei teatri, ci si deve sempre raccomandare di spegnere la soneria del cellulare per non disturbare lo spettacolo e gli altri spettatori. E tuttavia, alcuni, pur tenendo spenta la suoneria, ogni tanto lo aprono per mandare o leggere messaggi o fare foto.

Perché stia accadendo tutto questo è difficile dirlo o meglio il fenomeno dovrebbe essere approfondito dagli addetti ai lavori, cosa che non capita quasi mai per il rischio di essere licenziati. Si pensi al caso dello scienziato informatico americano Sam Altman, l’inventore di un nuovo e rivoluzionario modello di IA, che considerava una minaccia per l’umanità: prima licenziato da Microsoft, ma subito dopo, guarda caso, reintegrato e riaccolto con il tappeto rosso.

Oltre che gli addetti ai lavori dovrebbero occuparsene gli psicologi che, anzi, dovrebbero essere quelli che se ne dovrebbero preoccupare maggiormente soprattutto per l’uso eccessivo che dell’IA fanno i bambini. Ma così non è.

Si parla molto spesso degli effetti sull’individuo di un uso eccessivo del cellulare e sui possibili rimedi, ma mai sulle cause di questa forma di dipendenza psicologica. Persino i nostri ministri e deputati, tutti, indistintamente, in aula hanno un cellulare acceso, a volte due, anche se silenziati. Non potrebbero leggere i loro messaggi o postarli sui social (anche il Primo ministro lo fa, figuriamoci gli altri parlamentari), in un altro momento e quindi senza distrarsi da ciò che si sta discutendo in aula?

Inoltre, si sta diffondendo a tutti i livelli una sorta di malevola mentalità, cioè quella per cui non ci dobbiamo preoccupare di tutto questo, perché un rimedio verrà prima o poi trovato (magari con dei chip impiantati direttamente nel cervello!). Quando il fenomeno delle droghe pesanti si è diffuso su larga scala e a tutti i livelli sociali, si è ipocritamente pensato che tutte le persone coinvolte potessero essere recuperate; la verità è che i centri di cura e assistenza per questi individui si sono moltiplicati (in Italia ce ne sono centinaia e tutti a spese dello Stato).

In questi ultimi tempi si sta parlando di una nuova IA, la QStar, una intelligenza ancora più potente della ChatGPT (Chat Generative Pre-trained Transformer), con capacità cognitive superiori (così dicono) o almeno uguali a quelle umane, che hanno fatto riflettere seriamente persino coloro che ci hanno lavorato, cioè gli scienziati, come il già citato Sam Altman, perché potrebbe avere conseguenze molto gravi per l’umanità, più gravi di una semplice dipendenza psicologica: qui infatti si parla di macchine in grado di essere logiche, e questo potrebbe starci, ma anche capaci, per esempio, di contestualizzare un testo e ragionarci razionalmente sopra.

Contestualizzare e ragionare vuol dire avere un’adeguata capacità cognitiva e una forma di pensiero astratto che caratterizza soprattutto la mente umana e quella di molti animali, non di una macchina che non ha alcuna cognizione. Anche se penso che non sarà mai possibile per una macchina contestualizzare, c’è chi crede che questo un giorno possa invece accadere. Una macchina che contestualizza, per esempio, una poesia di Giacomo Leopardi? Sarebbe pura follia solo pensarlo. Su questo punto possiamo essere certi che un sistema elettronico per quanto potente possa essere, incluso il Qstar, non potrà mai contestualizzare un bel nulla e tanto meno una poesia di Leopardi.

La sua eventuale contestualizzazione sarà suggerita da chi implementerà nella macchina un software per poterglielo far fare e quindi chi contestualizzerà in questo caso, ammesso che si possa parlare di contestualizzazione di un testo o di un discorso, non sarà la macchina, ma la mente del progettista che è un essere umano. Questo è un particolare che molto spesso sfugge sia agli scienziati che costruiscono i software, sia alla gente comune che li usa e questo è un problema molto grave.

È il prezzo che dobbiamo pagare per il progresso, ammesso che si possa parlare in questi termini, cioè di logica, contestualizzazione e ragionamento artificiale? Certamente no.

Il punto fondamentale è che invece di preoccuparci degli ultimi sviluppi dell’IA, di quello che stanno pensando di fare la Microsoft e i suoi scienziati, che di certo sono persone molto intelligenti, dovremmo preoccuparci della nostra intelligenza e di come la stiamo utilizzando.

In conclusione, questa forma di materialismo esasperato è falsa e ingannevole perché nega aprioristicamente l’esistenza della nostra mente e della nostra coscienza e quindi della nostra intelligenza.

Gli animali, fortunati loro, non hanno certamente questi problemi. Allora, dal momento che loro sono veramente liberi, c’è chi ha pensato di sostituirli con dei robot dotati delle loro sembianze (di cani, di gatti, di cavalli e perfino di rettili), che camminano, ballano, parlano, ridono, che si possono controllare da remoto e che hanno avuto, guarda caso, un grande successo di mercato.

Se la proiezione dei nostri sentimenti sugli animali, certamente molto meno fattibile con quelli selvatici, non raggiunge certi scopi, potrebbe avere successo con dei sostituti artificiali, con dei fantocci. Io credo che dietro a tutto questo, le multinazionali dell’informatica siano coadiuvate da psicologi ben pagati che conoscono cinicamente molto bene le nostre debolezze e come funzionano le nostre menti per approfittarne.

Angelo Tartabini