Il film di Roberto Minervini, I dannati, ha vinto il premio “Migliore regia” nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2024. Minervini, originario di Fermo, vive e lavora tra Italia e Stati Uniti d’America, ed è noto soprattutto per la sua produzione documentaria: negli anni, è stato selezionato in vari festival, e nel 2018 partecipò in concorso alla 75ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia con il documentario Che fare quando il mondo è in fiamme?.
Con I dannati, il regista realizza un’opera asciutta e dura, ambientata nel 1862, durante la Guerra di secessione americana (1861-1865). I protagonisti della vicenda sono dei soldati dell’esercito nordista in missione nelle terre occidentali della federazione: siamo in pieno inverno, il clima è rigido, la neve ed il freddo non perdonano. La squadra è piccola e ci sono persone di ogni età, anziani, adulti e ragazzini: nel corso dello svolgimento della loro vaga missione, vengono progressivamente attaccati e decimati dagli avversari. Minervini fa immergere il pubblico tra i soldati: le inquadrature ravvicinate, quasi sempre all’altezza dei soldati e spesso di spalle, come se lo spettatore marciasse insieme ai militari, fanno immedesimare lo spettatore con coloro che combattono e muoiono. La disperazione, la morte e gli scontri sono presenti, ma spettacolarizzati al minimo: il dramma è vivo e chiaro, ma è essenziale e mai ridondante.
Pochi dialoghi, ma significativi: dalle poche parole pronunciate dai protagonisti, capiamo i motivi della loro partecipazione alla guerra. C’è chi combatte perché è contrario alla schiavitù, c’è chi è lì perché crede che questo sia il volere di Dio, c’è chi è lì senza saperne il vero motivo: comunque sia, a prescindere dalle differenti motivazioni individuali, tutti si trovano a compiere lo stesso mesto viaggio, attraverso terre fredde e a stretto contatto con la morte. Sono tutti dannati e condannati a vagare in quelle terre senza una meta precisa, ottemperando ad una missione indefinita, attraversando un limbo, vivendo quasi in una dimensione fuori dal mondo e dal tempo (in certe scene ed in certe situazioni, l’autore sembra rievocare La sottile linea rossa di Terrence Malick). La regia è capace di mettere al centro i suoi personaggi e di enfatizzare le loro individualità: il grandangolo utilizzato (quello della fotografia fissa delle Canon Rangefinder, come dichiarato dal regista), mette a fuoco solo il centro dell’immagine e sfuma ciò che c’è intorno. Così facendo, gli individui vengono risaltati, le loro figure spiccano, mostrando efficacemente l’inarrestabile tragedia che vivono e dalla quale non possono fuggire.
Silvio Gobbi