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Recensione: “Pistol”, la miniserie di Danny Boyle

Never Mind the Bollocks, Here’s The Sex Pistols, questo è il famosissimo e provocatorio titolo dell’unico album di studio inciso dai Sex Pistols, nel 1977. Chi erano i Pistols? Quattro ragazzi scapestrati, incapaci di suonare e di cantare, cresciuti nelle realtà difficili delle peggiori zone di una Londra in crisi e fermento. La fine degli anni Settanta, la disoccupazione, la povertà, la rabbia, l’alcol e le droghe, il declino delle promesse di un mondo migliore: tutto ciò si sentiva gravemente. Il regista Danny Boyle (coetaneo dei Pistols) ha deciso di narrare, con la miniserie Pistol (da poco uscita su Disney+), la repentina parabola, la fulminea ed eccessiva ascesa e discesa dei Sex Pistols.

Liberamente tratta dalla autobiografia del chitarrista e fondatore della band Steve Jones (“Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol”), la serie è quindi palesemente orientata dal suo punto di vista. In questi sei episodi, emerge la regia scattante di Danny Boyle, intelligentemente irregolare, capace di passare repentinamente da un registro ad un altro come ha già dimostrato in lavori come Trainspotting e T2 Trainspotting. Il regista, grazie all’uso di un rapporto 4:3 (un’inquadratura rettangolare “stretta”, vicina ad un quadrato per intenderci), bene rappresenta quella mancanza d’aria, quella sensazione di claustrofobia e rabbia presente nelle ossa e nelle teste dei giovani punk, insofferenti nei confronti di un mondo ipocrita che negava loro ogni speranza, ogni futuro («And there’s no future, and England’s dreaming»): da ciò la ribellione, il caos, all’anarchia solo in senso caotico senza alcun legame col movimento anarchico politico. In Pistol subito salta agli occhi l’ottima ricostruzione della Londra del tempo, dei suoi costumi, della moda, degli ambienti trucidi frequentati dai punk. Boyle, e lo sceneggiatore Craig Pearce, mescolano eventi veri a rivisitazioni, tra autentiche liti ed episodi inventati, senza dimenticare i reali abusi di alcol e droghe. La serie fatica ad ingranare nei primi due episodi, per poi migliorare dal terzo (“Bodies”, probabilmente il migliore dei sei), fino ad arrivare all’ultimo episodio, quando il gruppo si sfascia durante il tour statunitense. La colonna sonora, parte integrante della serie, è, ovviamente, azzeccata: si va da David Bowie ai brani più noti del gruppo, ed il risultato musicale non poteva essere fiacco.

I Sex Pistols erano scorretti ed acuti, veri e finti. Erano realmente provocatori e, al tempo stesso, un prodotto ben studiato dal loro manager, il giovane Malcolm McLaren. Steve Jones, Johnny Rotten, Sid Vicious, e tutti gli altri, avevano rigurgitato il tanto schifo già ingoiato nelle loro giovani vite: l’astuzia ed il situazionismo senza limiti di McLaren hanno reso questo odio un’icona, un business; McLaren era addirittura pronto a far girare un film sulla band al regista pulp del tempo, Russ Meyer (chi meglio del più famoso “regista di tette” poteva mettere su pellicola i personaggi più provocatori dell’epoca?).

In Pistol c’è tutto questo, anche se, in certi punti, sembra non spingersi oltre: quello di Danny Boyle è un racconto che avrebbe potuto essere ancora più aspro, violento, viscerale e crudo, magari con qualche parte romanzata ed artefatta in meno. Comunque, al di là di ciò, non è un prodotto da buttare, ha la sua forza, la sua schiettezza e la capacità di ben restituirci uno spaccato d’epoca conflittuale: una storia spesso bollata come semplice rabbia giovanile, ma, in verità, molto più profonda e radicata in tanti altri problemi. Per chiunque volesse ulteriormente approfondire la storia della band, c’è il documentario del 2000 Oscenità e furore (The Filth and the Fury), di Julien Temple.

Un ultimo appunto. La serie ha creato il caos: John Lydon (a.k.a. Johnny Rotten) si è scagliato contro Pistol, dicendo di essere stato escluso dalla realizzazione ed additando l’opera come piena di falsità. Dall’altra parte (da Steve Jones agli autori) affermano che Rotten non abbia voluto partecipare a priori alla serie. Chi dice una cosa, chi un’altra. Ancora una volta, gli ormai ex membri della band non vanno d’accordo: la serie ha i suoi punti di forza e di debolezza, ma possiamo confermare che, a distanza di più di quarant’anni, i veri Sex Pistols sono ancora i Sex Pistols.

Silvio Gobbi

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