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Cibo e fame nelle pellicole
Cibo e fame nelle pellicole

Il rapporto deviato tra cibo e fame nel cinema: violenza e rito

«Mangia. Se tu non mangi, tu non puoi morire»: così dice Ugo mentre imbocca, forzatamente, il povero Michel, agonizzante per via di una forte colica, causata dall’eccessiva mangiata collettiva a cui sta partecipando. Ugo, Michel, Philippe e Marcello sono i quattro protagonisti de La grande abbuffata (Marco Ferreri, 1973) e trasformano il cibo da un bene vitale ad un veicolo di morte. Quattro rappresentanti della classe borghese medio-alta che convertono i loro corpi in bare da ricolmare di cibo. Mangiano fino al parossismo, di continuo. Sono quattro, come gli angoli di una casa prossima al crollo: quattro rappresentanti di una società avvelenata e pronta a cedere al peso della propria ingordigia. E Ugo, cuoco della combriccola suicida, sembra un mago, uno sciamano, intento a creare lussuriosi, grassi e conditi piatti letali: grazie a lui, il mondo può crepare soffocato dalla propria opulenza. Il mangiare, da atto naturale e vitale, si trasforma in autolesionismo: una vera fame di autodistruzione. La fame può essere naturale, fisiologica, nervosa, ma può anche sfociare nel cannibalismo: per l’uomo, qualsiasi elemento può diventare cibo, come ne Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (Peter Greenaway, 1989). Qui, il laido delinquente Albert, ingurgita il cibo come un animale, mentre gestisce, prepotentemente, il proprio entourage: la moglie, gli scagnozzi ed il suo ristorante. Fagocita per soddisfare il proprio bisogno di possessione: il suo mangiare è un puro atto di potere e di controllo, senza nessuna ombra di piacere. Egli è così brutale da arrivare ad uccidere violentemente l’amante segreto di Georgina, la maltrattata moglie. La donna, ferita e determinata, con l’aiuto del cuoco Richard, obbliga Albert ad un indimenticabile atto di antropofagia: lo costringe a mangiare il defunto amante di lei, cotto dallo chef. Come in una sperduta cultura lontana, di quelle che si leggono nei resoconti etnografici, Albert deve mangiare il nemico che ha ucciso. A differenza dei guerrieri Tupinamba, i quali si dedicano, con determinazione, al pasto dei nemici sconfitti dopo averli purificati, dopo averli sottoposti a lunghi periodi di prigionia (integrandoli nella società, addirittura attraverso matrimoni con le donne del villaggio vincitore), Albert ne soffre: non è un guerriero tribale, non ha una struttura caratteriale plasmata da antiche eredità, è meramente un violento del mondo moderno, tanto animalesco quanto infantile, e la sua brutalità decade davanti alla macabra punizione inflittagli dalla moglie. La distinzione tra primitivi e civilizzati è labile: la base umana condivide gli stessi archetipi violenti e incontrollabili, la violenza e la cupidigia sono presenti in ogni popolazione di ogni regione del mondo. La fame ed il cibo possono essere associati tanto alla forza, alla violenza, quanto al sesso. Come nel film La carne (Marco Ferreri, 1991) dove i due protagonisti sono travolti da un vortice di sesso e cibo: Paolo e Francesca si rinchiudono in una casa al mare e passano le loro giornate tra amplessi e mangiate. Quando lei decide di andarsene, lui la uccide e la mette in frigo per cibarsene. Sesso, cibo e morte: il brusco ed inimitabile Ferreri rappresenta l’uomo come un incontro tra il moderno, il tribale ed il grottesco. I personaggi sono feroci e capaci di suscitare nello spettatore curiosi stimoli intellettuali: i suoi protagonisti sono sempre tristi e disperati, ma senza mai cedere al patetismo, e l’inconfondibile aspetto grottesco che li caratterizza non cede mai all’innaturale (anche le vicende più assurde appaiono come naturali, senza stonature). Ne hanno ripreso lo stile, in maniera ancora più caustica, Ciprì e Maresco con i loro soggetti. Ad esempio, l’avido Fefè (Totò che visse due volte, 1998): un uomo abietto, meschino, capace di rubare, alla veglia funebre dell’amante morto, l’anello del cadavere ed il pezzo di formaggio che si trova sul tavolo, per mangiarlo come un rapace, come gli animali che soddisfano egoisticamente la propria fame, incapaci di qualsiasi umana riflessione. Diverso è il povero Stracci de La ricotta (Pier Paolo Pasolini, 1963). Egli è una comparsa in un film incentrato sulla Passione di Cristo: riveste il ruolo del ladrone pentito crocifisso assieme a Gesù. Non riesce a mangiare nulla per tutto il giorno: alla fine, si ingozza di ricotta e di tutto il cibo che trova, con desolante mutismo e fretta. Muore durante le riprese, sulla croce, per una congestione causata dall’abbuffata. «Una volta introdotto il cibo, si tratta di un agire all’interno e dall’interno: per cui non è soltanto questione di cibo e di bevande in senso stretto; è anche questione di sostanze che vengono ingerite e che provocano trasformazioni o effetti di tipo metabolico» (Francesco Remotti). In questo punto focale della trattazione di Remotti, egli descrive come sia fondamentale l’alimentazione, nella storia dell’uomo, per la creazione di società, culture e gruppi nel globo. L’alimentazione è alla base della vita, ma nel caso di Stracci, tale atto fondante dell’uomo e dell’umanità, è il veicolo che lo porta alla morte. Il cibo da lui ingurgitato è contornato dalla disperazione, dalla rassegnazione, dalla derisione della troupe: in un certo senso, è avvelenato, e lui mette dentro di sé tutto quel male. Sviluppandosi «all’interno e dall’interno» dell’organismo, il male entrato con il cibo, si evolve malamente in lui, portandolo alla dipartita. Il suo «fare umanità» termina sulla croce non risvegliandosi mai più. Tutti questi personaggi di Ferreri, Greenaway, Pasolini, Ciprì, Maresco (ed altri) vivono la loro esperienza con il cibo andando al di là del semplice bisogno fisiologico: donano al mangiare una connotazione psicologica, sociologica ed antropologica. L’ingurgitare è una critica alla società dei consumi, all’avidità, al desiderio sessuale, al cannibalismo, all’inestinguibile senso di possessione. Registi così diversi per stile e contenuti, rappresentano, tutti, un rapporto con il cibo capace di ricordarci quei lati, quegli aspetti antropologici nascosti in noi, quell’atavica ferocia mai sparita, rimasta sepolta nella coltre del nostro habitus, nel profondo, capace di riaffiorare nelle più violente e quasi dimenticate manifestazioni.

Silvio Gobbi

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