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Recensione: “Drive My Car”, il film di Ryūsuke Hamaguchi

Yūsuke Kafuku è un attore e regista teatrale. A due anni dalla morte di sua moglie Oto (una sceneggiatrice con la quale ha avuto una profonda, complessa e difficile storia d’amore), Yūsuke si reca a Hiroshima per dirigere “Zio Vanja”, l’opera del famoso drammaturgo russo Anton Pavlovič Čechov. Giunto lì, la fondazione responsabile del festival teatrale gli assegna una giovane autista, Misaki, incaricata di guidare l’auto del regista per tutto il periodo delle prove. Inizialmente restio, Yūsuke si aprirà alla ragazza, instaurando con lei un rapporto sempre più forte, un legame padre-figlia: grazie a questo inaspettato affetto, sia lui che lei faranno i conti con il loro passato ed i loro fantasmi.

Drive My Car è l’ultima opera del regista giapponese Ryūsuke Hamaguchi. Premiata con il Golden Globe “Migliore film in lingua straniera” e il “Prix du scénario” al Festival di Cannes, concorrerà agli Oscar in quattro categorie importanti: “Miglior film”, “Miglior regista”, “Migliore sceneggiatura non originale” e “Miglior film internazionale”.

Adattamento cinematografico del racconto omonimo di Haruki Murakami presente nella raccolta Uomini senza donne, Drive My Car è un viaggio nei dettagli e nella profondità dell’animo umano. Le lunghe sequenze, i fitti dialoghi, le sfumature dei protagonisti, costruiscono ed accrescono la fine e meticolosa struttura narrativa che dà corpo al nucleo della storia: la necessità di accettare il passato inalterabile ed irrimediabile.

Yūsuke e Misaki, attraverso questa impensabile affinità, si aiutano a vicenda nel riappacificare i loro cuori e le loro menti: i lunghi viaggi in macchina, permettono ai due protagonisti di sciogliersi e di parlarsi schiettamente. Quel piccolo abitacolo, pulito e curato nei minimi dettagli, dove Yūsuke è solito ascoltare le vecchie registrazioni vocali della moglie defunta, da tempio dei ricordi e del rammarico, diventa il luogo del futuro, della riapertura al tempo ed alla vita. Hamaguchi rappresenta la loro profonda e dolorosa, ma necessaria, ripartenza, ricordandoci come il caso sia fondamentale nella loro, e nella nostra, vita: è quella molla capace di mutare il nostro corso in maniera radicale, repentina ed inaspettata.

Un film di tre ore, un’opera che richiede tutto il tempo necessario, da guardare e ascoltare con attenzione per la sua ricchezza di minuziosi contenuti e insegnamenti. Un lungometraggio che, attraverso i caratteri ed i rimorsi dei protagonisti, mostra a tutti noi quanto, troppo spesso, ci affatichiamo pensando a ciò che non potremmo mai cambiare. La vita va come deve andare, il dolore per le parole che Yūsuke non è mai riuscito a dire a Oto rimarrà per sempre, come rimarrà per sempre irrisolto il rapporto tra Misaki e la sua defunta madre. Tutto permane, ma il tempo passa, la vita scorre e non va persa per ciò che ci blocca al passato. Il miglior modo per sopravvivere ai dolori è quello di accettarli, e di proseguire: non si può mutare l’immutabile, ma si può convivere con esso. Hamaguchi, attraverso la vicenda di Yūsuke, approda a Čechov. Con la rappresentazione del monologo di Sonja, la nipote di zio Vanja, ricordiamo come andare avanti, come curare e accettare le cicatrici, perché «che vuoi farci, bisogna vivere! Noi, zio Vanja, comunque vivremo. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di lunghe serate; sopporteremo con pazienza le prove che il destino ci manderà; ci affaticheremo per gli altri, e adesso e da vecchi, senza conoscere tregua e, quando verrà la nostra ora, moriremo con mansuetudine, e di là, dalla tomba diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che sentivamo tanta amarezza, e Dio avrà pietà di noi, e io e te, caro zio, vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo».

Silvio Gobbi

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