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Cry Macho
Cry Macho

Recensione cinematografica: “Cry Macho”, di Clint Eastwood

Clint Eastwood è nato nel 1930. Nel mondo del cinema, è nato due volte: la prima, come attore, negli anni Cinquanta-Sessanta (col grande successo delle pellicole di Sergio Leone); la seconda, come regista, nel 1971, con Brivido nella notte. Ha sempre portato avanti, in parallelo, entrambe le carriere, la recitazione e la regia e, spesso, è stato protagonista dei film da lui stesso diretti. Opere capaci di affrontare diversi temi complessi e scottanti, come l’eutanasia, il razzismo e la pedofilia. Nella vita privata, Eastwood è sempre stato sia un conservatore (a livello politico) che un progressista (per i diritti civili), e questo suo binomio traspare in molti protagonisti delle sue pellicole, opere dal taglio deciso e netto, film chiari che non si perdono in sequenze speculative e vanno dritti al punto, alternando momenti di dramma e azione a parti di inaspettata ed efficace ironia ed autoironia.

E questa versatilità rimane ancora oggi, anche ora che Clint Eastwood ha superato i novant’anni e torna al cinema con il suo nuovo film, Cry Macho. Ora riveste i panni del cowboy dopo tantissimo tempo, interpretando il ruolo del texano Mike Milo: l’anziano deve partire per il Messico, per recuperare il figlio del proprio capo, il tredicenne Rafo, per portarlo via dalla madre violenta e dalla vita di strada; Mike trova il giovane, ma ritornare negli Usa non sarà facile.

Cry Macho è un road movie che rappresenta una nuova tappa della carriera del regista, dove rielabora e mette in discussione uno dei suoi più vecchi miti, la figura del cowboy. Vecchio ed invecchiato in ogni senso: Eastwood non è più il giovane pistolero dei film di Leone, né l’ispettore Callaghan, ora è l’anziano Mike, l’età pesa ed i suoi acciacchi si fanno notare nei movimenti. Ma Mike/Clint è ancora arguto, sveglio, capace di capire cosa ha davanti e come muoversi. Attraverso il recupero di Rafo, Mike fa i conti col proprio passato, diventa consapevole. Aiutando il ragazzo, si confronta con i propri dolori, e capisce (e fa capire al ragazzino) che con l’età tutto ciò che da giovane conta, come l’essere forte, “macho” (non a caso, il nome del gallo da combattimento che Rafo si porta sempre dietro), non vale: la maturità si acquisisce quando si comprende che tutte le certezze della gioventù, in realtà, non esistono.

C’è chi può vedere in questa presa di posizione una forma di arrendevolezza da parte di Eastwood, ma non è così: è un passo successivo, l’ennesimo, l’arrivo della maturità più acuta, forse il raggiungimento finale della sua visione del mondo e della vita. Così l’autore ha costantemente operato lungo la sua filmografia, è partito dagli iniziali ruoli duri che tutti conosciamo per approdare a personaggi costretti a mettere in discussione le proprie certezze per capire il mondo che muta, come il protagonista di Gran Torino, pronto a rivedere il proprio razzismo, o il rude allenatore di boxe che arriva ad assecondare il desiderio di morte della sua giovane e paralizzata boxeur (Million Dollar Baby). Con Cry Macho, Clint Eastwood continua a sottolineare l’importanza del cambiamento lungo la vita, in ogni momento dell’esistenza, anche quando, dati gli anni, può sembrare impossibile. Ad un’età così avanzata, decide di “smontare” la figura del cowboy, il personaggio che ha lanciato la sua carriera, emblema del mondo degli Usa, scoprendone le fragilità con una storia ben narrata, dove si sente la durezza del tempo che passa. Ma nella forza che si alterna alla ineluttabile fragilità, riconosciamo lo sguardo di Milo/Eastwood, carico del passato e pronto e gettarsi nel futuro, nonostante gli inevitabili acciacchi che si riflettono nel corpo ma che non intaccano il carattere: il tempo passa, ma non fa nessuna paura.

Silvio Gobbi

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