Oggi, mercoledì 25 novembre, è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Problema purtroppo attualissimo che anche il cinema ha approfondito spesso in tutta la sua drammaticità. Ecco alcuni spunti di riflessione nell’articolo di Silvio Gobbi.
«Bess McNeil, tu sei una peccatrice e per i tuoi peccati sei condannata all’Inferno». Così viene ricordata, nel giorno del suo funerale, Bess, protagonista di Le onde del destino (Lars von Trier, 1996). Una ragazza piegata al volere del marito, paralizzato per un incidente: chiede alla moglie di fare sesso con chiunque, per poi riferirlo lui, dandogli modo, così, di rivivere i rapporti sessuali che non può più permettersi. Bess muore per soddisfare le fantasie del coniuge, ed il giorno del suo funerale, invece di essere compianta, riceve la finale condanna dalla ferrea comunità calvinista. Una donna vittima delle pressioni del marito, degli uomini violenti che abusano di lei, della comunità che la stigmatizza ulteriormente: una condanna continua. Bess, la ragazza piegata, uccisa e, in ultimo, colpevolizzata: von Trier, con i suoi sincopati e caratteristici movimenti di macchina, bene ne rappresenta l’irrequietezza ed il male subìto, creando una violenta regia per un violento dramma. Abusi fisici e psicologici: il confine è sottile e le due componenti sono sempre presenti, l’una implica l’altra. Come ci ricorda la protagonista di Primo amore (Matteo Garrone, 2004). Ispirato ad una storia vera, narra di una donna che, per assecondare il volere del proprio deviato compagno (un uomo che ama le donne magrissime, ridotte all’osso), arriva all’anoressia: Garrone ritrae così il lento declinare della giovane, il peso che perde per compiacere il fidanzato, uno stillicidio causato da un amore malato, possessivo, manipolatore, che parte dalla psiche e si riversa sul corpo, destinato ad un devastante deterioramento. Ma staccarsi da chi esercita la forza non è semplice, perché le vittime possono vivere il maltrattamento come una gabbia dalla quale è difficile uscire (stigma sociale, vergogna, paura: quanti possono essere i sentimenti provati da chi subisce? Infiniti. Quante le bigotte menti pronte a giudicare? Troppe). E, per chi tenta la fuga, il percorso non è semplice. Infatti nel film L’affido – Una storia di violenza (Xavier Legrand, 2017), è narrata la vicenda di una donna che si separa da un uomo violento, contendendosi l’affido del figlio undicenne. L’energumeno è capace di tutto pur di soddisfare il suo brutale istinto di possessione, arrivando persino a gesti di estrema violenza nei confronti del bambino e dell’ex moglie: la regia secca e tesa rende bene l’idea del gelo che si prova nel vivere certi incubi senza fine. E nemmeno nei luoghi di lavoro la situazione è distesa: la volontà di affermarsi, di non essere donne ingabbiate negli stereotipi idioti, può portare alla reazione violenta della controparte maschile. North Country (Niki Caro, 2005), tratto da un fatto vero, narra di Josey, operaia in una miniera, continuamente vessata dai colleghi: un ambiente fortemente maschile, dove le poche donne presenti ne subiscono di ogni colore, abusi verbali e fisici. Josey e le sue colleghe ingoiano i peggiori rospi, sempre più grandi, fino ad arrivare in tribunale per ottenere giustizia: una vicenda capace di ricordarci che, per la donna, anche «[…] se astrattamente le sono riconosciuti dei diritti, una lunga abitudine impedisce che essi trovino nel costume la loro espressione concreta» (Simone de Beauvoir). Parole scritte più di settant’anni fa, ma ancora attuali. Ancor più vicina ai nostri giorni è la storia di Bombshell (Jay Roach, 2019), incentrata su Megyn Kelly e le redattrici della Fox News. Le giornaliste della televisione guidata per anni da Roger Ailes vivono in un ambiente di abusi, ricatti sessuali e omertà: un luogo dove le donne devono sottostare agli ordini ed alle voglie altrui, perpetrando così la prassi di lunga data, che purtroppo arriva ancora ai giorni nostri, secondo cui «Silenzio, remissività e obbedienza continuano a essere considerate le principali virtù femminili» (Daniela Lombardi). E quando si ha a che fare con il silenzio, la remissività e l’obbedienza, la violenza può scattare in qualsiasi momento: una parola di troppo, una decisione contrastante, una libera azione fanno crollare la triade del controllo e scatenare, così, molti degli ingiustificabili ed efferati fatti di cronaca a noi noti.
Questi sono solo alcuni dei film che trattano della violenza sulle donne. Potremmo parlare a lungo di tante altre pellicole, di molte altre protagoniste, come Sibel de La sposa turca, pronta a suicidarsi pur di fuggire dalla famiglia patriarcale e maschilista che non può più sopportare, o Dorothy di Velluto blu, resa schiava sessuale da un uomo che le ha rapito il figlio. Tanti sono i lungometraggi che parlano di tutte le possibili forme di violenza subite dalle donne: in parte storie vere, in parte opere di fantasia, fondate su un fenomeno reale, concreto e diffuso, capaci di ricordarci che ci sono molte Bess che periscono e ancora poche Josey o Megyn che riescono a ribaltare la propria situazione.
Silvio Gobbi