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L'Inferno, 1911
L'Inferno, 1911

700 anni del Sommo Poeta: la poetica dantesca ha influenzato anche il cinema

Dante Alighieri è morto da settecento anni, nel 1321. Come sappiamo, la sua opera ha influenzato la cultura sotto ogni aspetto, dalla letteratura alla pittura. Ma, spesso, si trascura quanto il Sommo Poeta abbia condizionato anche il cinema. Molti film si sono ispirati a Dante ed alla Divina Commedia, come Totò all’inferno (1955), Inferno, di Ron Howard (trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Dan Brown), La casa di Jack (Lars von Trier, 2018) ed altri lavori.

Noi tratteremo tre esempi italiani differenti tra di loro e storicamente importanti: L’Inferno del 1911 (diretto da Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan), e le influenze dantesche nell’opera di Federico Fellini e in quella di Pier Paolo Pasolini.

Bertolini, De Liguoro e Padovan filmarono la più sperimentale delle trasposizioni cinematografiche della dantesca cantica infernale: un’opera oggi poco nota, ma capace, ancora dopo centodieci anni, di affascinare il pubblico per le sue elaborate immagini e ricostruzioni. I canti dell’Inferno sono narrati con un taglio espressionista, utilizzando tecniche come la sovrimpressione per ingigantire i personaggi, con una luce tale da marcare i contrasti e le figure dei protagonisti, dando così vita ad un affresco vivente degno delle incisioni di Gustave Doré. Il linguaggio evocativo di Dante rende le sue immagini difficili da riprodurre, ma quest’opera degli anni Dieci del Novecento, capace di captare la vitalità culturale ed artistica dell’epoca (uno dei momenti più fecondi della Penisola, il periodo del Futurismo, avviato già dal 1909, e il “Manifesto della Cinematografia futurista” sarebbe uscito nel 1916), rende bene giustizia al poeta. Gli autori, utilizzando perfettamente le rudimentali tecniche disponibili, diedero vita ad un vero e proprio Inferno, capace di spaventare il pubblico di allora e di affascinare ancora oggi chi si ritrova a vedere quelle sequenze. Un film capitale, tale da segnare un prima ed un dopo nella storia del cinema italiano: la narrazione ben costruita e la forte spettacolarizzazione visiva resero l’opera «una tappa fondamentale nella storia del cinema italiano e aprì le porte ai film storici e mitologici, di grande spettacolo e di lunghezza inusitata» (Gianni Rondolino). L’Inferno è stato un lungometraggio spartiacque nel nostro cinema, come la Commedia di Dante lo fu per letteratura italiana.

Altri autori, invece, non si sono limitati a rappresentare su pellicola i versi delle cantiche, ma hanno assorbito la poetica dantesca per poi riversarla sui loro personaggi e sulle loro vicende, come una sorta di eredità che si ripresenta in ogni fotogramma. Prendiamo Federico Fellini. Tutta la filmografia del regista romagnolo è intrisa di sogno e realtà, un grande peregrinare di figure che cercano di cogliere la leggerezza della vita per non sprofondare nel vuoto. Gian Piero Brunetta definì Fellini come il maggiore rappresentante del verbo dantesco nel cinema, ed il regista disse di sé: «In fin dei conti cosa sono i miei film, se non delle discese in inferno con un barlume di paradiso?»; le opere da lui realizzate confermano queste affermazioni. Dove si trovano I vitelloni (1953), se non in un grande girone di accidia? Che cosa vivono i personaggi de La dolce vita (1960), se non una lussuriosa e vuota quotidianità? Dove il protagonista, Marcello, si ritrova ad essere un Dante pigro, capace ma svogliato, smarrito in una Roma di anime tristi: egli può confrontarsi solo con Steiner, punto di riferimento, una sorta di Virgilio che non riesce a sopportare il peso dell’esistenza, arrivando all’estremo gesto. Non dimentichiamo inoltre la confusione, lo smarrimento in una “selva oscura” di Guido, il protagonista di (1963), per non parlare dell’assurdo viaggio de La città delle donne (1980). In questi, ed in altri, lungometraggi, Fellini mostra il suo lato dantesco, ma, a differenza del poeta, non condanna: nei suoi film, sospesi tra vita ed onirismo, il regista non cede ai severi giudizi. Nel grande circo di Fellini, nessuno dei suoi saltimbanchi è un marcio peccatore da emendare. Sono esseri corruttibili, umani e deboli, alla continua ricerca di rare epifanie, qualche sporadica Beatrice: i personaggi felliniani vivono i loro gironi senza poterne uscire, ma senza un eccessivo peso del senso di colpa, senza cruccio del peccato né il rimpianto per una vita diversa. Come ha scritto Italo Calvino: «Tanto la provincia vitellona quanto la Roma cinematografara sono gironi dell’Inferno, ma sono anche insieme godibili Paesi di Cuccagna». Fellini godereccio, consapevole dei peccati, ma indulgente e permissivo, bonario: «Egli danza», dice di lui Orson Welles, diretto da Pasolini nel mediometraggio La ricotta (1963). Pasolini, ex sceneggiatore di Fellini, contraltare del regista romagnolo, terza ed ultima parte di questo scritto.

Il debito pasoliniano nei confronti di Dante appare evidente sin dall’incipit del suo primo film, Accattone (1961), con i versi: «l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno / gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi? / Tu te ne porti di costui l’eterno / per una lacrimetta che’l mi toglie» (Purgatorio, Canto V). Accattone, personaggio che vaga nel limbo della periferia romana, tra apatia, assenza di prospettive e povertà infernale, è un essere tra l’umano ed il bestiale: un’anima che vive come un diavolo fino alla morte, l’unica soluzione per riappacificarlo con la vita. Non scordiamo la citazione dantesca nel secondo lungometraggio di Pasolini Mamma Roma (1962), quando il giovanissimo Ettore, ragazzo di periferia nei guai con la legge, nell’ospedale carcerario, sente i versi introduttivi del Canto IV dell’Inferno e viene colto da una crisi isterica: “[…] Vero è che ’n su la proda mi trovai / de la valle d’abisso dolorosa / che ’ntrono accoglie d’infiniti guai. / Oscura e profonda era e nebulosa / tanto che, per ficcar lo viso a fondo, / io non vi discernea alcuna cosa. / «Or discendiam qua giù nel cieco mondo» […]”; poco dopo questi versi, il giovane fa una tragica fine, nel “cieco mondo”. Già da queste citazioni, cogliamo l’importanza di Dante per il regista. E non dimentichiamo, inoltre, il saggio di Pasolini, “La volontà di Dante a essere poeta”, dove riporta e approfondisce l’analisi di Gianfranco Contini sui molteplici registri linguistici utilizzati da Dante per far parlare i personaggi della Commedia, differenziando espressioni e parole a seconda del contesto. Quindi, Dante Alighieri come punto di riferimento per il cinema, per la critica letteraria e per la produzione scritta pasoliniana (ricordiamo “La Divina Mimesis”): tutti indizi che ci fanno comprendere quanto la figura del poeta fiorentino abbia influenzato, sotto ogni aspetto, la visione e la produzione del regista. Ma il legame di Pasolini con Dante Alighieri è più evidente nelle trame infernali che i suoi protagonisti si ritrovano a subire, gironi di sofferenza dai quali non si scampa, come già abbiamo introdotto con le due pellicole dell’autore sopra citate. In queste ed in altre vicende, la distanza con Fellini diventa netta: mentre il regista romagnolo, come abbiamo visto, sa essere indulgente, Pasolini si focalizza sul dolore ed esclude quasi sempre ogni possibilità di paradiso. Specialmente nel suo ultimo lungometraggio, Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), diviso in capitoli palesemente danteschi (Antinferno, Girone delle manie, Girone della merda e Girone del sangue), il regista raggiunge l’apice della violenza. Dopo aver abiurato dalla “Trilogia della Vita” (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972; Il fiore delle Mille e una notte, 1974), egli, con Salò, realizza uno dei film più estremi (in senso fisico e psicologico) della storia del cinema, dove ogni leggerezza è impossibile. Il regista condanna il “potere” ed i dannati stessi, rappresentando un mondo senza più possibilità di redenzione: il potere può commettere ogni nefandezza sugli individui, senza via d’uscita. Pasolini, giudice tormentato, severo ed estremo, non contempla alcuna salvezza. La pace appare in rare occasioni ed è raggiunta tramite la morte, come nel finale di Accattone, quando l’uomo dice: «Ah, mo’ sto bene!», dopo essersi spaccato la testa; e lo stesso accade al termine di Che cosa sono le nuvole? (1968), quando i due burattini, interpretati da Totò e Ninetto Davoli, vengono gettati nella discarica e ammirano, estasiati, le nuvole nel cielo. Rare epifanie di serenità (mediate sempre dalla dipartita), in una filmografia che ha prevalentemente viaggiato tra le terzine dell’Inferno, dove ai personaggi viene, nel migliore dei casi, concessa quella “lacrimetta” di timore e pentimento di Bonconte da Montefeltro del Canto V del Purgatorio.

Silvio Gobbi

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