«I lavori flessibili comportano rilevanti oneri personali e sociali, a carico dell’individuo, della famiglia, della comunità. […] il lavoro intermittente, a chiamata […] o semplicemente precario […] è percepito come una ferita dell’esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti di cittadinanza che si davano per scontati» (Luciano Gallino). Tante ansie, poche sicurezze: lavoro saltuario, paga stracciata. Mentre la politica si è sempre più piegata a questa visione del mondo del lavoro, il cinema ha captato lo sviluppo di questa problematica: il lavoro precario con tutte le sue conseguenze negative. Una situazione tanto diffusa quanto poco seriamente affrontata da chi di dovere. Tra i registi che maggiormente raccontano le storie degli ultimi, c’è il britannico Ken Loach. I suoi film denunciano le contraddizioni sociali mettendo in primo piano i protagonisti, i loro atteggiamenti e le loro vicissitudini. L’autore dona spessore ai propri personaggi valorizzandone il carattere, creando una riuscita fusione tra sfondo sociale ed individui: ci si affeziona ai protagonisti ed alle loro difficoltà. La sua narrazione diretta, concreta ed empatica riesce ad eludere l’aridità delle categorie sociologiche, senza trascurare la realtà. Con Riff-Raff (1991), Loach racconta la vita dei muratori dopo le riforme della Thatcher, costretti a lavorare precariamente, senza assicurazioni sul lavoro né versamento di contributi, sfruttati dai capi. La difficile storia d’amore tra Stevie, il giovane muratore protagonista, e Susan, è lo specchio del complicato mondo in cui vivono. Nel corso degli anni la situazione non è migliorata, ed il “lavoro intermittente” è diventato sempre più una costante, arrivando a coinvolgere ogni ambito. Non solo i lavoratori meno qualificati, ma anche quelli ad alto grado di istruzione. Come la banda di ricercatori universitari di Smetto quando voglio (Sydney Sibilia, 2014): geniale commedia che parte dal reale problema del precariato universitario. I maltrattati accademici di Sibilia, stufi di tirare a campare, sintetizzano una smart drug per diventare milionari. Ma non tutti sono ricercatori: esistono anche coloro che, per sopravvivere, si ritrovano con miseri contratti a lavorare per negozi e ristoranti. Quanti camerieri lavorano e mantengono la famiglia con questo mestiere, spesso in nero, senza tutele né garanzie? Molti. Come Eli, la protagonista del film Sole cuore amore (Daniele Vicari, 2016). Ispirato ad un vero fatto di cronaca, la protagonista è una giovane cameriera sfruttata, dalla salute provata, costretta a farsi in quattro per mandare avanti la famiglia: muore di fatica, nella metropolitana. Muore a causa degli impossibili orari di lavoro imposti dal proprietario: non ha il tempo per curarsi. E gli orari inammissibili, sottopagati, sono comuni a molti dei lavori precari. Tante ore, poca paga e zero contributi. Poi c’è la magia delle parole del business: tutti quei termini altisonanti che tanto eccitano le prospettive contemporanee. Ti fanno credere di essere il “datore di lavoro di te stesso” e, come in un sogno erotico, alla fine ti accorgi che è tutto nella tua testa e la realtà è ben diversa: Sorry We Missed You (Ken Loach, 2019) ne è un esempio eclatante. La storia di un corriere assunto come socio per una ditta di consegne, ma costretto a lavorare con ritmi forsennati: turni assurdi, assenza di coperture da parte dell’azienda, e grandi multe aziendali per qualsiasi inconveniente. Ricky, il protagonista, può soltanto ubbidire al sistema: non ha sindacati dalla sua parte, e non può cercare comprensione dal proprio capo. Ed è così che, ormai da decenni, le vite di molti lavoratori sono mutate. La libertà, individuale ed economica, sbandierata negli anni Ottanta, non si è realizzata: oggi sappiamo bene che «La libertà senza sicurezza appare non meno paurosa e ingrata della sicurezza senza libertà. Entrambe le situazioni sono minacciose e cariche di paura: è come essere tra Scilla e Cariddi» (Zygmunt Bauman). E mentre ci troviamo tra questi due mostri, arriviamo ad uccidere pur di avere un posto come servo, come nella parossistica lotta tra poveri rappresentata magistralmente in Parasite (Bong Joon-ho, 2019). Una condizione globale che ci accompagna fino alla morte. Questo accade al personaggio principale di Io, Daniel Blake, sempre di Loach (2016): il protagonista è un uomo malato di cuore, costretto a vivere senza il congedo per malattia a causa di un errore burocratico. Una situazione assurda che lo conduce alla morte, per non essersi potuto riguardare con cura. La classe operaia è andata in Paradiso con Volonté, la classe precaria dove andrà? Per ora, viaggia da un contratto a termine ad un altro, seguita dai registi, come Ken Loach ed altri, che continuano a renderla nota al pubblico per denunciarne i problemi. Il cammino degli ultimi è lungo, la fine imprevedibile. Magari le parole di Daniel Blake possono darci delle indicazioni: «Non sono un cliente, né un consumatore, né un utente, non sono un lavativo, un parassita, né un mendicante, né un ladro, non sono un numero di previdenza sociale, né un puntino su uno schermo. Ho pagato il dovuto, mai un centesimo di meno, orgoglioso di farlo. Non chino mai la testa, ma guardo il prossimo negli occhi e lo aiuto quando posso. Non accetto e non chiedo elemosina. Mi chiamo Daniel Blake, sono un uomo e non un cane; come tale esigo i miei diritti, esigo di essere trattato con rispetto. Io, Daniel Blake, sono un cittadino. Niente di più e niente di meno». Cominciare a trattare le persone, tutte, con rispetto, in quanto esseri viventi con diritti e doveri: questo bisogna fare, «niente di più e niente di meno».
Silvio Gobbi