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Recensione: nelle sale il film “Dune” di Denis Villeneuve

Nell’anno 10191, l’universo è governato da un Imperium, il cui imperatore è affiancato da una serie di famiglie nobili. La vita economica della galassia si basa sulla “spezia”, una sostanza dalle alte proprietà energetiche contenuta nelle sabbie del deserto del pianeta Arrakis, noto anche come “Dune”, abitato dalla popolazione Fremen (da sempre colonizzata da invasori esterni). L’imperatore decide di affidare la gestione di Arrakis al duca Leto Atreides, signore del pianeta Caladan; un uomo giusto, l’opposto del precedente padrone, lo spietato signore degli Harkonnen. Leto raggiunge il pianeta, insieme alla concubina Lady Jessica e al giovane figlio Paul. La famiglia Atreides mostra sin da subito un approccio differente rispetto ai precedenti padroni, ma la serenità dura poco. Perché, in realtà, l’imperatore ha mandato Leto e la sua discendenza nel pianeta per attaccarli e sterminarli, con l’aiuto degli Harkonnen. Ma il giovane Paul, futuro duca, è un ragazzo dai grandi poteri nascosti, una risorsa: un uomo che coltiva in sé doti tali da poter conquistare l’Imperium, e non solo. Ora è giunto per lui il momento di mettersi alla prova, affrontare i nemici, il deserto ed entrare in contatto con il popolo locale, per poter compiere il percorso a lui destinato.

Dune, di Denis Villeneuve, porta sullo schermo l’universo visionario e complesso dei libri di Frank Herbert. Il regista, attraverso un racconto denso e dettagliato, capace di ben caratterizzare i personaggi (specialmente Paul e la madre), dà vita ad un prodotto di fantascienza profondo e lontano dagli stereotipi. Le ambientazioni affascinanti e perfette, la colonna sonora di Hans Zimmer che dona ulteriore corpo alle sequenze, creano quell’ossatura su cui crescono i nuclei interni del film. Il primo, più immediato, il tema dello sfruttamento, l’eterno predominio dei più forti sui più deboli: la “spezia” dei Fremen li obbliga a vivere come schiavi, a lavorare per gli occupanti di turno, senza poter gestire loro la propria terra; il colonialismo come male perpetuo, dell’epoca antecedente a Herbert, contemporanea a lui, a noi, e agli esseri umani del futuro. Ma questo aspetto sociale è soltanto il più superficiale dell’opera. La complessità è oltre, e si riscontra nella maturazione di Paul. Un ragazzo che vive in un futuro lontano da noi, ma ancora fortemente radicato nella trascendenza, nelle figure messianiche, dove gli uomini, più che mai, sono alla ricerca di un equilibrio tra spirito e vita terrena. La madre (sacerdotessa della potente organizzazione religiosa “Bene Gesserit”) avvicina Paul alla ricerca della forza della Voce, dell’indefinibile assoluto, ed il ragazzo ha le doti per unire la politica allo spirito: il suo scopo è una crasi di questi due aspetti. Villeneuve narra con profondità il percorso del giovane Paul, l’intenso cammino verso una crescita spaventosa, non voluta ma ineluttabile, per forza da affrontare. Tra intrighi, fughe, e lotte, egli compie un viaggio attraverso la morte, tanto fisica quanto simbolica. Affronta tre grandi distacchi, tre grandi “morti”. La prima volta, quando è costretto a lasciare il suo pianeta natale, ricco d’acqua, per raggiungere Arrakis, terra desertica; la seconda, quando il padre viene tradito e muore; la terza, quando deve uccidere un Fremen per poter essere ammesso nella loro comunità. Tre varianti della morte: la prima, il distacco dall’infanzia; la seconda, la perdita della figura maschile di riferimento; la terza, egli che uccide per diventare un uomo. Il film risulta un grande rito di iniziazione, tale da rievocare una marea di rituali di passaggio (strutturalmente comuni a molte religioni): alla fine, il ragazzo, da “essere dell’acqua” muta in “essere della sabbia”; l’acqua del pianeta Caladan lascia lo spazio alla sabbia del nuovo pianeta nel corpo e nella mente del giovane protagonista. Ma questo è solo l’inizio per Paul, perché il suo viaggio è appena cominciato e, nel prossimo capitolo di Dune, Villeneuve ci racconterà come si compirà.

Silvio Gobbi

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